Dalla testimonianza di Daniel al simbolo di Iqbal Masih: un viaggio nell’orrore di chi è stato costretto a crescere troppo in fretta, tra armi e violenza, e l’impegno globale per un futuro senza guerre infantili.
“Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro, mai un’arma di offesa. Gli unici strumenti che un bambino dovrebbe tenere in mano per lavoro sono penna e matita”. Questo è il pensiero di Iqbal Masih, un bambino operaio e attivista pakistano, diventato un simbolo della lotta contro il lavoro infantile.
“Arma di offesa”, espressione che, inevitabilmente, fa pensare ai bambini soldato.
Una realtà che, in base a quanto è stato riportato dall’Unicef, degenera di giorno in giorno, per via delle guerre che continuano a non arrestarsi non risparmiando neppure gli innocenti che dovrebbero vivere di spensieratezza, giochi, carta e penna.
Quei bambini che, invece, sono costretti a crescere troppo in fretta tra violenza, sangue e traumi.
Bambini soldato
Secondo le stime, sono 450 milioni le bambine e i bambini costretti a vivere in zone di conflitto, finendo per rappresentare circa la metà delle vittime.
In questo scenario drammatico ci sono anche loro spesso dimenticati: i bambini soldato.
Un termine che racchiude tutti i minorenni (under 18) strappati alle loro famiglie di origine e reclutati da forze o gruppi armati, sia regolari che irregolari. Un’espressione che racchiude delle realtà drammatiche come piccoli combattenti ma anche i cuochi, i facchini, le vedette, le spie e le ragazze sequestrate per fini sessuali o costrette a matrimoni forzati. Spesso vengono reclutati dai sei anni in su.
Il motivo di questo abominio è legato soprattutto alla gestione dei bambini soldato, in quanto sono più controllabili e meno costosi. Ma anche per ragioni pratiche, visto che in battaglia possono essere sfruttati per operazioni in cui serve essere piccoli, veloci e farsi vedere il meno possibile.
A queste motivazioni si aggiunge altresì quella del cinismo e della spietatezza della logica della guerra, secondo la quale i bambini sono perdite umane meno gravi per un esercito.
La povertà come causa principale
Destinatario di questo amaro destino è chi ha avuto la sventura di nascere dalla parte sbagliata, ossia della povertà.
Infatti, nella maggioranza dei casi, i bambini soldato provengono da famiglie delle classi sociali più povere ed emarginate oppure da alcuni gruppi a rischio: bambini di strada, bambini delle campagne, rifugiati e altri esuli. In alcune circostanze, sono gli stessi piccoli che decidono autonomamente di arruolarsi, spesso per difesa personale. I minori, infatti, essendo circondati dalla violenza, si sentono più sicuri in un gruppo combattente e armati. Una violenza che trova amaro riscontro nei dati: in Africa, l’80% dei bambini soldato ha assistito a un’azione armata intorno alla propria casa, il 70% ha visto distruggere la propria abitazione, il 60% ha perso la propria famiglia in guerra.
Situazioni che hanno fatto sì che molti bambini avessero un’ esperienza diretta o diventassero testimoni oculari delle peggiori violenze: dai massacri alle esecuzioni sommarie, dalle torture alla violenza sessuale.
Angeli all’inferno in cui per sopravvivere devono imparare a vivere tra e coi demoni generati dalla guerra.
I bambini soldato sono particolarmente concentrati in Africa e in Asia.
Secondo un rapporto del Segretario Generale dell’ONU, in testa c’è il Myanmar, accompagnato, da Afghanistan, Burkina Faso, Colombia, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Iraq, Mali, Nigeria, Sudan, Sud Sudan, Somalia, Siria, Yemen.
Una piaga umana e giuridica
Si tratta di minorenni reclutati in qualsiasi forza armata e coinvolti in scontri armati.
Per questo motivo l’ UNICEF, negli ultimi dieci anni, ha realizzato, in numerosi paesi, in particolare Afghanistan, Angola, Burundi, Colombia, Liberia, Uganda, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Sri Lanka dei «Programmi per assistere e aiutare nel reinserimento dei bambini soldato».
La piaga dei bambini soldato rappresenta un vero e proprio ostacolo per il raggiungimento di almeno tre degli Obiettivi di Sviluppo declinati nell’Agenda 2030:
● l’istruzione primaria universale,
● la riduzione della mortalità infantile,
● la lotta contro le malattie.
Secondo quanto previsto dal protocollo opzionale sul coinvolgimento dei minori nei conflitti armati: nessun minorenne può essere arruolato nell’esercito. Questo è stato adottato dall’Assemblea generale dell’ONU il 20 novembre 1989 ed è stato firmato dalla Svizzera il 24 febbraio 1991.
Lo Statuto di Roma della Corte Penale internazionale include, di fatto, i crimini di guerra nei conflitti armati, l’arruolamento dei minori di 15 anni o il fatto di concedere un ruolo attivo nelle ostilità.
Le conseguenze del ruolo del bambino soldato sotto il profilo psicofisico sono a dir poco devastanti: dai gravi stati di denutrizione a mutilazione degli arti a causa di spari o dello scoppio di bombe e granate, da malattie della pelle a patologie respiratorie e dell’apparato sessuale incluso l’AIDS, dalle pesanti ripercussioni psicologiche dovute al fatto di essere stati testimoni di atti criminali ad averli commessi.
Una guerra dimenticata che conta decine e decine di morti ogni giorno e che ha già portato lo sfollamento, la fuga di milioni di persone costrette a vivere ormai al limite della sopravvivenza.
Un’infanzia violata
Situazioni drammatiche che trovano conferma nell’amara testimonianza di chi è stato privato della sua infanzia.
Come quella di Daniel U, bambino-soldato a undici anni scappato dall’Africa dopo essere stato usato come spia e aver dovuto lasciare la scuola per imparare a sparare
«Sì, è possibile che io abbia ucciso qualcuno. Ma non lo posso sapere con certezza».Daniel oggi ha 31 anni frequenta il quinto anno di un liceo economico-sociale.
Eppure nonostante siano passati gli anni e abbiamo cambiato vita, continua a essere perseguitato dai fantasmi di un’infanzia violata. In particolare sono due i ricordi che lo hanno segnato.
Il primo, è quello di essere stato privato del diritto di studio, quando una notte gli è stato riferito che avrebbe dovuto abbandonare la scuola per imbracciare un fucile. L’altro è ambientato nel Sahara, a metà del suo viaggio a piedi verso la Libia. «Avevo fame, ero stanco e non so dire di preciso il nome del posto in cui mi trovavo. Ricordo che c’era un ragazzo che stava mangiando farina di manioca. Io mi sono avvicinato e gli ho chiesto di lasciarmi ripulire la ciotola che stava usando. Ma lui non ha voluto e ha preso la sabbia del deserto per pulire la ciotola, così che io non potessi mangiare. E’ passato molto tempo, ma questa scena, questa umiliazione mi torna spesso in mente».
Oggi Daniel lavora aiutando persone con disagio mentale e fa volontariato con un’associazione locale. Un atto di coraggio che sa di riscatto dalle ferite che lo hanno segnato a vita durante la sua adolescenza.
Ferite che confermano come gli unici strumenti di un bambino debbano essere proprio “penna e matita”.