A Taipei la guerra del futuro? Le presidenziali taiwanesi del 2024 potrebbero già essere decisive? L’Italia ha deciso da che parte stare?
Mentre gli occhi del mondo sono puntati su ciò che sta accadendo tra Israele e Palestina, o al più sul conflitto tra Ucraina e Russia, il generale Zhang Youxia, vicepresidente della Commissione militare centrale cinese, ha dichiarato che “non importa se c’è qualcuno che vuole separare Taiwan dalla Cina, l’esercito cinese non sarà mai d’accordo e non mostrerà pietà”. Si tratta solo dell’ultimo di una serie di proclami, accompagnati spesso da provocazioni sul piano militare, avanzati dall’establishment di Pechino per ribadire quello che è il più grande obiettivo di Xi Jinping: la riunificazione nazionale attraverso l’annessione di Taiwan. La data cerchiata in rosso è il 2049, anno del centenario della vittoria del Partito Comunista Cinese nella guerra civile contro il Kuomintang. Per la Cina rimettere l’isola di Formosa all’interno dei suoi confini (al momento è considerata una provincia ribelle) sarebbe una vittoria innanzitutto simbolica, perché significherebbe chiudere del tutto con il passato, non solo quello della guerra civile, ma anche con il cosiddetto “secolo di umiliazione nazionale”, quando le potenze occidentali si spartirono di fatto il territorio cinese in sfere di influenza. Taiwan però ha anche un valore strategico. Infatti è un alleato degli Stati Uniti (anche se Washington non la riconosce ufficialmente come Stato), che ne garantiscono la sicurezza. Al tempo stesso Taipei funge come prima linea di contenimento dell’espansionismo cinese in estremo oriente. Una sorta di testa di ponte occidentale nel Mar Cinese Meridionale.
Secondo un leitmotiv portato avanti da tanti osservatori nell’ultimo decennio, la Terza Guerra Mondiale scoppierà (ammesso che non sia già in atto, seppur a pezzi) proprio per il controllo di Formosa. Tuttavia, quegli stessi analisti sostengono che Pechino non si sente ancora abbastanza forte per provare a sfidare gli Usa. Si sa però che il governo cinese ha altri strumenti per far valere la sua egemonia, a cominciare dall’economia. Il 42% delle esportazioni di Taipei sono dirette verso la Cina continentale, contro il 15% di quelle verso l’America. E sebbene negli ultimi anni le relazioni commerciali taiwanesi si siano diversificate, una certa interconnessione è impossibile da estirpare. Eppure è proprio l’industria di Taiwan uno delle più grandi garanzie per l’indipendenza. Taipei è il più grande produttore al mondo di semiconduttori, materiali indispensabili per qualsiasi dispositivo tecnologico, a cominciare dagli smartphone. Durante la pandemia, con la globalizzazione semisospesa, si è innescata una carenza di semiconduttori sui mercati mondiali, accendendo i riflettori sulla TSMC, l’azienda taiwanese che possiede il 52% della produzione mondiale di questi materiali. Un dato a dir poco sbalorditivo. L’idea è che fin quando Taipei sarà cruciale per l’occidente per via dei semiconduttori, allora Washington farà di tutto per evitare l’annessione cinese.
Le elezioni presidenziali del 2024 hanno l’aria di essere un passaggio decisivo per la storia di Taiwan. Da un lato ci sarà proprio il Kuomintang (diventato però un partito favorevole a un avvicinamento a Pechino) e dall’altro c’è il Partito Progressista Democratico (fautore di una linea più dura verso la Cina continentale), che negli ultimi anni è stato al potere con la presidente Tsai Ing-Wen. Durante il suo mandato ha cercato di mantenere un certo equilibrio tra Stati Uniti e Cina, la domanda però è che postura adotterà il suo successore visto che lei non si ricandiderà.
Per l’Italia non è semplice operare in questo contesto. L’attuale governo guarda a Pechino in un’ottica strettamente atlantista, ma deve fare i conti con il Memorandum di adesione alla Belt and Road Initiative sottoscritto nel 2019 dall’allora esecutivo gialloverde. Palazzo Chigi vorrebbe evitare di rinnovare l’accordo prossimo alla scadenza (ma per farlo serve una comunicazione esplicita, altrimenti il rinnovo sarà automatico) ma ragioni di natura commerciale, oltre che diplomatica, creano qualche difficoltà. In ogni caso, l’intenzione di Roma al momento è di avere un atteggiamento più duro nei confronti della Cina e Taiwan, con cui ci sono già dei rapporti commerciali, non può che rientrare in questa visione. Un anno la premier Meloni ha incontrato personalmente Andrea Sing-Ying Lee, di fatto l’ambasciatore taiwanese sulla penisola. Un passaggio ovviamente non gradito a Pechino. Il sostegno italiano a Taipei non può spingersi più in là per ragioni di equilibrio, ma l’attuale governo su questo fronte ha le idee chiare.