Da anni Ankara è presente nei Balcani sfruttando le affinità con le comunità islamiche e gli investimenti economici, ma adesso si registra pure una sterzata militare in Kosovo.
I tentacoli della Turchia si allungano sempre di più. Il neo-ottomanesimo di Erdogan non si limita a puntare solo al Caucaso, al Medio Oriente e al Nordafrica, ma ormai da diversi anni guarda anche ai Balcani. La politica turca nell’area sta passando sotto traccia rispetto a zone in cui Ankara finanzia gruppi armati impegnati in conflitti regionali e forse proprio per questo il soft power turco incontra meno ostacoli sul suo cammino, almeno a livello mediatico. Eppure gli interessi turchi nella penisola balcanica riguardano più da vicino l’Unione Europea e l’Italia di quanto non si possa pensare, non fosse altro che per una questione geografica. Persa l’opportunità di entrare nella comunità europea, Erdogan deve trovare altri stratagemmi per riuscire a mantenere una certa vicinanza a Bruxelles. In quest’ottica Paesi come la Croazia, che già fanno parte dell’Ue, o come Serbia, Albania, Bosnia, Macedonia del Nord e Montenegro, che sognano un giorno di entrarci, costituiscono i punti di partenza perfetti per provare ad allargare indirettamente l’influenza dentro i confini dell’Unione Europea.
A Erdogan non manca gli strumenti per legarsi ai governi e alle popolazioni balcaniche. Con quei Paesi che hanno al loro interno una comunità musulmana più o meno maggioritaria, come la Bosnia o l’Albania, Ankara non ha alcuna difficoltà a stringere legami duraturi. Ma benché la religione costituisca un’importante mezzo del soft power turco, alla fine a contare sono sempre gli investimenti economici. Per fare un esempio, la Turchia è stata uno dei principali finanziatori della ricostruzione albanese dopo il terremoto del 2019. Il Governo turco negli ultimi venticinque anni ha firmato accordi di libero scambio con tutti gli Stati della regione, le esportazioni turche nell’area crescono ininterrottamente ormai da svariati anni. Le aziende di Ankara sono coinvolte nella costruzione di infrastrutture vitali per lo sviluppo economico dei Paesi balcanici. Attraverso la penetrazione economica la Turchia è sicura di poter giocare un ruolo chiave nella penisola.
Ma le mire egemoniche turche devono per forza passare anche da quello che è il grande conflitto (più o meno) congelato della regione: Serbia contro Kosovo. In questo contesto Erdogan gioca su più tavoli, come spesso gli capita del resto. Il soft power turco ha forte presa su Pristina sia per motivi legati alla fede che per quanto riguarda lo scambio commerciale (gli investimenti turchi si aggirano intorno ai 300 milioni di euro). L’azione di Ankara in questo caso però va oltre. Ormai da diversi mesi la presenza turca all’interno di Kfor, il contingente Nato che serve per mantenere la pace sul territorio kosovaro, è aumentata considerevolmente, superando anche i numeri statunitensi. Di recente i turchi hanno assunto il comando di Kfor: il generale Ozcan Utulas ha preso il posto del generale italiano Angelo Michele Ristuccia. Inoltre la Turchia ha fornito all’esercito kosovaro i droni Bayraktar TB2.
A cosa servono queste mosse per il Governo turco? In primo luogo a dimostrare un riavvicinamento all’Alleanza Atlantica, come già avvenuto per altre questioni. In secondo luogo, Ankara fa sentire i muscoli in un’altra regione in cui ha degli interessi strategici. Infine, Erdogan prova a diventare l’ago della bilancia all’interno del conflitto kosovaro. Che non significa totale appoggio a Pristina, ma provare a diventare il mediatore tra le parti in causa. In un incontro con il premier serbo Vucic di circa un anno fa Erdogan aveva dichiarato che “la Turchia è pronta ad aiutare Serbia e Kosovo a superare le loro sfide, sperando in una soluzione rapida e duratura”. Chissà, una soluzione capace di far contenta Belgrado, Pristina ma soprattutto Ankara.