Il premier Draghi ha inviato i suoi ministri Di Maio e Cingolani per affidare la sovranità energetica italiana dalle mani di Putin alle tribù africane che si massacrano per la gestione dei preziosi giacimenti.
Legarsi mani e piedi alla Russia per quanto concerne la dipendenza energetica non è stato certamente una scelta lungimirante ma stringere accordi con realtà africane che calpestano i diritti umani e che ogni giorno spargono sangue innocente fra le tribù locali per contendersi la gestione dei giacimenti è una scelta discutibile e probabilmente controproducente per il nostro Paese.
Nella narrazione dell’emergenza mondiale legata, dopo il Covid, alla guerra in Ucraina, non possono non pesare i gravi errori commessi in almeno dieci anni di governi italiani che hanno preferito eludere il problema della sovranità energetica nazionale del Paese affidandosi ad uno Stato fortemente autocratico che, peraltro, poteva entrare in guerra da un momento all’altro, come poi è successo.
È da qui che dobbiamo partire se vogliamo fare un’analisi obiettivo della situazione attuale e delle scelte, discutibili, che il nostro governo ha fatto, rivolgendosi ai paesi africani come l’Algeria e soprattutto il Congo per aumentare il rifornimento di gas, senza però tener conto di alcuni aspetti che rischiano di farci passare, come si suol dire, dalla padella alla brace.
Proprio come quella russa, infatti, l’economia algerina si basa sulle esportazioni di petrolio e gas, che ammontano ad un terzo del Pil. Una rendita importante di cui, però, come spesso capita con i rentier state, non beneficia la popolazione, finendo nelle mani di pochi. In questo caso si tratta del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), il partito che ha guidato il processo di decolonizzazione dalla Francia e che adesso detiene il potere in un contesto solo formalmente democratico ma, in realtà, profondamente autoritario.
Nel 2019 imponenti manifestazioni di piazza, durati molti mesi, hanno portato alla fine del ventennale mandato dell’ormai anziano presidente Bouteflika. Il regime del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), invece di accogliere le istanze di rinnovamento e di pluralismo chieste dai manifestanti, ha preferito una finta transizione che ha portato l’attuale presidente Tebboune a prendere le redini del Paese. A questa operazione gattopardesca è seguito, ovviamente, un nuovo giro di vite.
L’Algeria, però, non è l’unico Paese a cui guarda Roma per cercare di recidere il suo legame con Mosca. L’Eni ha stretto un accordo ad aprile con la Repubblica Democratica del Congo, nel corso del famoso tour del Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio insieme al Ministro della Transizione Ecologica, Stefano Cingolani.
Una scelta che però fa discutere, come afferma l’Onorevole Tatiana Basilio, presidente del Centro Studi Laran: “Si tratta di un’iniziativa del Governo italiano alquanto discutibile e praticabile con notevoli difficoltà anche a fronte del fatto che la fornitura di gas inizierà non prima del 2023”.
Ma analizziamo meglio alcuni punti della storia recente della Repubblica del Congo. Nel 1994 il paese ha subito l’esodo di decine di migliaia di Hutu dal Ruanda, in conseguenza della sanguinosa guerra civile che ha provocato ben 500mila morti. Al di là dello scontro etnico, erano ovviamente contese molte delle risorse naturali di cui è ricca quella terra.
Solo lo scorso anno, il nostro ambasciatore Luca Attanasio ed il Carabiniere Vittorio Iacovacci sono stati uccisi nel nord del paese, vittime di una scia di sangue che gli stessi africani considerano la loro guerra mondiale. Questa potremmo definirla una ‘guerra dimenticata’, in un luogo dai più percepito lontano e sperduto su cui, però, si concentra l’interesse di molte potenze mondiali per le risorse energetiche custodite e delle quali se ne tenta la gestione attraverso il controllo del potere politico locale.
Anche il Papa quest’anno a Pasqua ha invocato la pace per il Paese africano. Un appello evidentemente inascoltato se è vero che nessuno, a partire dal governo italiano, si è posto il problema di legare la dipendenza energetica nazionale ad un Paese nel quale la democrazia è soffocata con crimini e repressioni quotidiane testimoniate dalle denunce delle associazioni umanitarie internazionali.
La guerra in Ucraina, però, non crea frizioni solo per quanto riguarda la questione energetica. Con lo scoppio del conflitto, lo spettro di una crisi alimentare minaccia tutta l’Africa. Algeria, Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Sudan, Tunisia, Nigeria e Senegal sono estremamente dipendenti dal grano russo e ucraino, diventato ormai scarsamente disponibile sui mercati. Mentre il Kenya e gli altri Stati del Corno d’Africa hanno bisogno dei fertilizzanti prodotti in Russia, altro prodotto la cui esportazione è diventata difficile con la guerra.
Come la crisi del 2008 ebbe un ruolo importante nell’innescare le primavere arabe, il conflitto in Ucraina rischia di destabilizzare gran parte del continente africano, già alle prese con la crisi economica e con decine di gravissimi focolai di guerre interne che hanno generato un’emergenza umanitaria al momento ignorata dai grandi del Pianeta.
Per questi motivi, prosegue l’On. Tatiana Basilio “è urgente fare una valutazione in merito alla stabilità politica che questi paesi dell’Africa hanno e avranno. Il rischio è quello di passare dalla padella alla brace. Ci vogliamo allontanare dalla dipendenza energetica delle estrazioni russe per finire nelle mani di Paesi che non garantiscono nemmeno un livello minimo di democrazia e di stabilità politica?”.
Del resto, il Congo può essere citato ad esempio come una realtà caratterizzata da una forte componente tribale che è causa di continui e spesso cruenti conflitti. Il livello di quello che può essere definito un vero e proprio massacro è tale che il numero dei morti è addirittura ignoto. Facile comprendere come le guerre diventino, quindi, un mezzo per il raggiungimento di scopi prettamente economici; un business garantito dal controllo del potere locale ad opera delle grandi potenze.
Da qui la conseguente esposizione (e fragilità) del nostro sistema di approvvigionamento energetico e, più in generale, del nostro tessuto industriale verso questi Paesi costantemente tenuti in precario equilibrio da interessi lontani da quelli italiani. “Questi conflitti intestini già esistenti potrebbero far saltare gran parte della produzione delle aziende italiane, come potrebbe accadere adesso se la Russia dovesse chiudere i rubinetti”, avverte la Basilio.
Negli ultimi anni in Africa sono avvenute importanti trasformazioni geopolitiche. Se fino a un decennio fa l’egemonia era in mano alla Francia, progressivamente la Russia e, soprattutto, la Cina hanno guadagnato sempre più terreno. E se i russi lo hanno fatto ricorrendo spesso ai mercenari della compagnia Wagner, come accaduto in Libia, Pechino ha utilizzato metodi di infiltrazione molto più sofisticati, ad esempio con forme di credito ai vari governi del continente per costruire infrastrutture. Un contesto simile, cui vanno aggiunti i problemi delle relazioni nel Mediterraneo, si potrebbe verificare per la nuova via del gas italiano che rischia di determinarne il tramonto immediatamente dopo l’alba.
“L’Africa è ormai terra di conquista per i soldati mercenari – conclude l’Onorevole – ma a volte è più comodo pensare che non esista nessun problema, che una volta chiuso il rubinetto del gas proveniente dalla Russia si potrà voltare pagina e chiudere un capitolo per ripartire con un nuovo inizio. Però non accadrà così, poiché indietro non si tornerà più e con il trascorrere degli anni ci renderemo sempre più conto della nostra cecità. Non è così che si aiutano le famiglie e l’Italia a ripartire. Essere dipendenti dalle fonti africane ci renderà di nuovo perdenti”.