In occasione della Festa della Donna, abbiamo posto alcune domande alla presidente del Centro studi Laran, che durante la scorsa legislatura, quale membro della Commissione Difesa della Camera, si era occupata molto delle problematiche relative al personale militare, e in particolare di quello femminile.
Onorevole Basilio, da cosa nasce il suo interesse per la situazione del personale militare?
Nei miei 5 anni di lavoro nella IV Commissione Difesa alla Camera dei Deputati, durante la XVII Legislatura, ho avuto modo di occuparmi del personale militare e delle sue problematiche, e ho cercato di far emergere le molteplici questioni che mi venivano segnalate. Io ritengo che il personale sia la risorsa più preziosa, che deve essere tutelata e tenuta sempre aggiornata attraverso programmi di formazione continua, affinché sia in grado di dare il meglio di sé nello svolgimento del proprio lavoro trovando, però, il giusto equilibrio con la propria vita privata. Il Centro studi Laran, del quale sono presidente, sta attualmente proponendo un modello per promuovere il cosiddetto “Benessere Organizzativo”, quello che il Ministero dell’Università e dell’Istruzione definisce “la capacità di un’organizzazione di promuovere e mantenere il benessere fisico, psicologico e sociale di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori che operano al suo interno”. Sono convinta che il Benessere Organizzativo, applicato alle Forze Armate, consentirebbe di ottenere ottimi risultati sia per il Comando, sia per il personale in divisa.
Come vede la situazione delle donne nelle Forze Armate italiane?
Ho affrontato recentemente questo argomento nel corso del webinar “Siamo Donne dell’Esercito”.
In generale, ritengo che si debbano valutare dei percorsi di crescita e sviluppo per le donne che lavorano in ogni settore, non solo in quello militare, al fine di annullare le differenze di trattamento rispetto agli uomini sia in termini economici, sia per quanto riguarda il loro benessere fisico e psicologico. Quest’ultimo, ovviamente, include il fatto di mettere in grado le lavoratrici di trovare il giusto equilibrio tra lavoro, famiglia e vita privata, equilibrio che per una donna è più difficile raggiungere rispetto a un uomo, a parità di lavoro svolto.
Per questo, mi sono occupata spesso delle problematiche della “famiglia militare”, tanto da tenere un convegno alla Camera dei Deputati nel 2017, assieme al collega Gianluca Rizzo. Sono sicuramente molteplici i problemi che una famiglia militare deve affrontare, a volte derivanti anche dalla leggerezza con la quale vengono prese certe decisioni. Ad esempio, se pensiamo ai trasferimenti, bisognerebbe valutare bene l’impatto e le conseguenze che uno spostamento di sede ha, non solo sul militare, ma su tutta la sua famiglia, specialmente quando si tratta di una donna. Troppo spesso, infatti, sono stati portati alla mia attenzione casi di donne con figli e marito, magari anch’egli militare, che sono state trasferite e quindi divise dalla loro famiglia, con tutte le problematiche che ne conseguono e che certo non giovano allo svolgimento del lavoro.
Basterebbe fare della buona programmazione e avere la volontà di valutare i singoli casi: in fondo, le donne militari non sono in numero così elevato da impedire agli uffici amministrativi dell’Esercito di valutare al meglio cosa sia più conveniente per la Forza Armata e, allo stesso tempo, non ledere la vita di una madre e moglie.
Cosa ne pensa delle quote rosa?
Per me la parità di genere non significa il rispetto delle “quote rosa” previste dalla legge, ma deve rappresentare uno spunto per tessere la trama e l’ordito per la costruzione di un nuovo modello realmente paritario, incentrato sul rispetto per la diversità che un uomo e una donna vivono. In qualsiasi ambito lavorativo una donna, a parità di qualità ed esperienza, si deve sempre impegnare molto di più di un uomo per raggiungere, spesso senza riuscirci, gli stessi traguardi. Attualmente, infatti, l’uomo viene ancora premiato sia con una maggiore retribuzione, sia con mansioni più elevate.
Quali sono, secondo lei, le maggiori difficoltà incontrate dalle donne militari in missione all’estero?
Ho avuto la fortuna di incontrare donne dell’Esercito anche nel corso di mie visite nelle sedi di missioni internazionali, come a Herat (Afganistan) e a Shama (Libano), e di apporre anche una medaglia sul petto di talune di loro con la Gold Medal Parade: è stato emozionante sia per me, sia per loro. Però, mi sono sempre chiesta se ai familiari di queste donne in divisa fosse mai stata offerta assistenza psicologica per aiutarli ad attendere serenamente il loro rientro.
Molte di queste donne sono mamme, e credo sia necessario che, specialmente ai loro figli, sia fornita un’assistenza psico/pedagogica prima della partenza, durante la permanenza in teatro operativo e, qualora se ne riscontrasse la necessità, anche al rientro della madre, magari affrontando un percorso insieme al bambino. Non sembra, ma sei mesi per un bambino piccolo lontano dalla madre sono tanti, come anche per un marito. Al rientro, si devono ricreare degli equilibri che si sono un po’ smarriti nei mesi di lontananza. Si insidia nella psiche del bambino anche una sorta di senso di abbandono, ed è noto che i bambini si colpevolizzano quando vivono una separazione da un genitore: spesso pensano addirittura che sia colpa loro se mamma se ne è andata, come accade anche durante i divorzi.
Sfido qualsiasi papà o nonno a riuscire a spiegare che mamma se n’è andata per lavoro, ma soprattutto a non far crescere la paura dell’abbandono nella psiche del bambino che deve vivere lontano dalla madre per lunghi periodi.
Ecco, penso che il pensiero della famiglia “abbandonata” sia una delle maggiori difficoltà da affrontare per le donne in missione lontano da casa, e sapere che i propri cari sono supportati da professionisti certamente le aiuterebbe. Inoltre, anche un sostegno psicologico al militare stesso, uomo o donna, farebbe la differenza.
Come pensa si possa attivare un programma di supporto psicologico per i militari italiani?
Durante la scorsa legislatura, con il Governo PD feci approvare una risoluzione in Commissione Difesa per incrementare, con convenzioni da stipulare in ambito civile, l’assistenza psicologica in ambito FFAA e FFOO. Sono convinta che la mente debba essere curata prima che si arrivi ad ammalare il corpo, che non è altro che il contenitore dello spirito. Pensavo che l’approvazione della risoluzione a mia prima firma potesse rappresentare un nuovo punto di partenza; invece, purtroppo, durante la XVIII Legislatura nessuno si è più preso carico di questo progetto, già approvato, per iniziare a mettere le mani dove ce n’è tanto bisogno.
Ovviamente, non si trattava di un progetto di sostegno psicologico che riguardava soltanto le problematiche che toccano le donne in divisa, ma il mondo militare in generale e quello delle Forze di Polizia a 360 gradi.
Ci sono già molte leggi in ambito civile a tutela delle lavoratrici donne e madri, ma non mi sembra sia cambiata l’abitudine dell’amministrazione Difesa di non recepire tali norme. Quindi, le leggi ci sono già, ma spesso non vengono assorbite in ambito militare, portando ulteriore discriminazione.
Secondo lei, è molto difficile superare sul lavoro le differenze tra uomini e donne?
Le differenze sono un valore, non devono essere viste come un problema! Un bellissimo libro, “Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere”, opera di John Gray, si basa su un pensiero tanto semplice quanto efficace: gli uomini e le donne hanno due diversi modi di pensare, di parlare, di amare. I comportamenti di uomini e donne sono spesso diametralmente opposti. Per esempio, tanto l’uomo in determinati momenti della sua giornata ha bisogno di “ritirarsi nella sua caverna” in solitudine, quanto la donna, alle prese con le stesse problematiche del partner, sente invece di dover condividere i propri sentimenti con gli altri. Il dialogo, contrariamente a quanto si possa pensare, non è però impossibile, anzi: dal momento che si imparano a riconoscere e apprezzare le differenze tra i due sessi, tutto diventa più facile, le incomprensioni svaniscono e i rapporti si rafforzano. E, cosa più importante, possiamo imparare ad amare e a sostenere nel modo migliore le persone che sentiamo vicine.
Quindi, se riuscissimo a portare il dialogo tra uomo e donna anche in ambito lavorativo, si capirebbe che solamente dopo che l’uomo avrà accettato di collaborare con la donna a parità di facoltà intellettive e nel rispetto delle diversità fisiologiche, avverrà quel cambiamento alchemico di cui necessita la Forza Armata per dare una svolta di qualità e puntare a un alto risultato in ambito benessere organizzativo. Avere una donna, madre, moglie come collega di lavoro in divisa non deve essere visto come un problema, ma come un valore aggiunto.
Chiedere che vengano rispettati dei diritti come pari opportunità, integrazione, genitorialità, e che non ci sia discriminazione solo perché si è nate donne, non corrisponde a sinonimo di una maggiore debolezza, semmai il contrario. Vuol dire integrare una parte importante del mondo, quella costituita dalle donne che hanno semplicemente delle esigenze differenti da quelle maschili, ed è passando attraverso l’accettazione di ciò che è diverso che si tende al raggiungimento della perfezione. Senza arrivare così in alto, e rimanendo con i piedi per terra, è auspicabile che ci sia una maturazione tale da giungere all’integrazione delle differenze tra maschile e femminile per arrivare all’equilibrio tra i due mondi.
Faccio un banale esempio: cosa è successo nel settore della moda, ambito prettamente femminile. In questo caso, anche gli uomini calcano i palchi delle sfilate di moda, ma non è stato chiesto loro di comportarsi come si comportano le indossatrici, e loro si sono ritagliati il proprio modo di essere in quell’ambito lavorativo e sono stati accettati. Questo deve avvenire anche in ambito militare, rispettando le specificità ma onorando anche le diversità tra uomo e donna, altrimenti sarebbe stato meglio che nel 2000 le Forze Armate non avessero dato la possibilità alle donne di partecipare ai concorsi e di diventare professioniste in divisa. Invece ci sono e sono presenti con tanta fatica e impegno, quindi non rendiamo loro le giornate lavorative ancora più pesanti.
È nel rispetto dell’eterogeneità che si può migliorare già da subito, passando per l’accettazione del cambiamento e della diversità. Sembra, però, che da parte maschile sia sempre abbastanza difficile accettare il fatto che ci sono donne che vestono una divisa e che esse vanno rispettate per la loro intelligenza e il loro lavoro, e non etichettate o schernite perché, magari, portano i capelli lunghi o hanno delle fattezze che inducono a commenti sessisti.
Guardiamo le donne come esseri umani intelligenti e apprezziamone le loro potenzialità in ogni ambito, anche in quello lavorativo.
Cosa risponderebbe a coloro che ancora si chiedono se le donne militari sono all’altezza dei loro colleghi uomini?
Che nel 2021, dopo che le donne italiane fanno parte delle FFAA da più di 20 anni, queste domande dovrebbero essere superate. Posso testimoniare la forza e il coraggio da esse dimostrati in qualsiasi ambito io le abbia viste operare, in Italia o all’estero, ma ci terrei a portare un bellissimo esempio di donne militari italiane: quelle che nel 2016 hanno partecipato a una fase di training in un’area geografica molto particolare, ovvero Erbil, nel Kurdistan iracheno.
Correva l’anno 2016, quando le donne militari Peshmerga curde vennero addestrate da sei militari donne italiane. Le allieve erano 21 e furono addestrate a tecniche di attacco, difesa e impiego delle armi automatiche e dei mortai. Queste donne sono diventate delle perfette combattenti “Zeravani”, le combattenti delle unità speciali curde irachene. Tutte ansiose di apprendere e quasi tutte passate per l’esperienza di perdere mariti o fratelli per mano dell’ISIS.
Per molte di loro, imparare a combattere ed essere addestrate al meglio era diventata una ragione di vita, un modo per combattere una specie di guerra personale, alimentata da un forte sentimento patriottico e dal desiderio di liberare la loro terra e la loro vita dall’oppressore, ovvero gli uomini del sedicente Stato Islamico, il quale in molti casi aveva massacrato i loro familiari.
Quello citato rappresenta un duplice esempio: di donne che, manifestando lo stesso coraggio e volontà degli uomini, partono in missione all’estero per un teatro di guerra difficile e pericoloso; e di altre giovani donne che scelgono di imbracciare le armi senza avere paura di sacrificare la propria vita per liberare le loro città dagli uomini dell’ISIS.
Proprio a fine settembre 2016 mi recai in visita in missione a Erbil, e la vita in quell’area geografica non era certo delle migliori: cenavamo vedendo i traccianti in lontananza, mentre uomini e donne delle milizie curde irachene si preparavano a liberare Mosul.
La donna non è da meno dell’uomo: questo esempio di donne in divisa italiane e curde ne è un modello. A tutte le donne militari italiane, ho suggerito di portare questo esempio quando un uomo in divisa, e non solo, tenta di denigrarle.
Pensa che in ambito militare siano ancora presenti il sessismo e la discriminazione?
Purtroppo sì. È un atteggiamento che la donna subisce in generale, in qualsiasi ambito lavorativo, civile ma non solo. In quello militare, qualsiasi azione un comandante compia nei riguardi dei sottoposti maschi, sulle donne cade con la stessa durezza, ma spesso con un’aggiunta di cattiveria che sconfina nel sessismo.
È notizia di pochi giorni fa la condanna di un colonnello, certo non “gentiluomo”, colpevole di aver pronunciato battute a doppio senso e offese sulla forma fisica delle sue sottoposte. Vero che l’ufficiale non era tenero nemmeno con i militari di sesso maschile, ma quando interagiva con le donne personalizzava il suo disprezzo, e l’offesa aveva sempre uno sfondo sessuale. Egli ha provato a difendersi specificando che le battute erano fatte per goliardia, ma il giudice ha ritenuto tale circostanza un’aggravante, giudicando le parole usate oltraggiose e pronunciate nell’ambito di un protratto comportamento di squalifica delle destinatarie, inquadrato in un rapporto di potere.
Uomini come questi sono sicuramente lontani anni luce da quello che si può definire un buon comandante e, soprattutto, un buon insegnante di vita per gli altri uomini che vestono la divisa, per i quali, anzi, rappresenta un pessimo esempio.
Nella giornata della Festa della donna, 8 marzo, triste data*, abbraccio tutte le donne in divisa, ritenendole un esempio da seguire per tutte noi.
*La festa fu istituita in memoria del tragico incendio dell’industria tessile Cotton di New York, nel 1908, che provocò la morte di 146 persone, per la maggior parte operaie.
Complimenti a Tatiana Basilio, una luce nell’emisfero femminile in divisa! Da esperienza vissuta, una crescita culturale da parte delle donne in divisa, avendo consapevolezza delle capacità di espressione, potrebbe permettere di fare un gran salto di qualità! Un riordino sulle regole per i trasferimenti del personale lo aspettiamo da sempre… con il professionismo questo settore può essere migliorato, agevolando gli spostamenti e i ricongiungimenti familiari! Le nostre Forze Armate e di Pubblica Sicurezza non possono più fare a meno delle donne, quindi, i vertici devono modificare i loro comportamenti, portando serenità tra le file dei reparti, creando omogeneità e collaborazione per il bene comune, migliorando la resa al servizio del Paese.