Applicazioni navali innovative: l’intervista all’Ammiraglio Bettini

Mar 24 2021
a cura di Riccardo Ferretti
L’ex Sottocapo di SMD, nonché Presidente dell’Organismo di valutazione della performance (OIV) della Difesa, ci illustra alcune soluzioni tecniche adottate nell’ambito di progetti riguardanti unità militari di superficie per le quali il requisito della velocità è considerato essenziale, pur dovendo armonizzarsi con altri parametri fondamentali.
Rendering del progetto Ultra Fast Offshore Vessel, un pattugliatore di 630 t. per 60 m. di lunghezza fuori tutto, di elevatissima velocità (oltre 70 nodi), largamente superiore a qualsiasi altra unità similare.

Ammiraglio Bettini

Ammiraglio Bettini

Ammiraglio Bettini
Rendering del progetto Ultra Fast Offshore Vessel, un pattugliatore di 630 t. per 60 m. di lunghezza fuori tutto, di elevatissima velocità (oltre 70 nodi), largamente superiore a qualsiasi altra unità similare.

L’evoluzione della minaccia nel dominio marittimo ha fatto emergere la necessità di disporre di unità navali molto veloci che possano svolgere un’efficace funzione di deterrenza e, qualora quest’ultima non risulti sufficiente, effettuare un intervento tempestivo e risolutore. Il nuovo requisito ha stimolato l’elaborazione di soluzioni tecniche innovative che muovono anche da studi avviati nel settore civile, in particolare presso alcune università italiane. Ce ne parla in questa preziosa intervista l’Ammiraglio di Squadra (r) Cristiano Bettini*, il quale ci spiega, attraverso l’esempio di alcuni progetti nazionali, come il requisito primario della velocità debba necessariamente accordarsi con determinati principi del design navale.

Quali parametri caratterizzano un’unità navale in fase progettuale?

Ogni progetto, sia civile che militare, nasce su requisiti di impiego che vengono definiti in partenza, ma ogni piattaforma navale, nella sua dimensione, deve comunque rispondere a precisi e definiti criteri di base riguardanti stabilità, tenuta al mare, robustezza, velocità, capacità di carico, manovrabilità e abitabilità che la connotano. Come tutti i progetti navali, il risultato finale voluto non può prescindere da alcuni compromessi che esaltino alcune prestazioni a scapito di altre. Nel caso delle prestazioni cui vi accennerò, il requisito della velocità abbinato alla stabilità è considerato premiante.

Cosa implica questa scelta?

La prestazione velocità, da sempre ricercata nei progetti navali, richiede energie da spendere per vincere le diverse resistenze al moto di uno scafo immerso, che sostiene il peso proprio e di ciò che viene imbarcato (payload) grazie alla spinta idrostatica. Le grandi costruzioni tradizionali si avvalgono normalmente quasi solo di questa, ma la possibilità di “aiutare” tale forza passa dal contributo di spinte idrodinamiche e aerodinamiche che consentono, a parità propulsiva, maggiore velocità a minor costo.

In quali casi la velocità si considera un requisito primario?

Senza entrare in disquisizioni accademiche, sono sotto gli occhi di tutti quelle circostanze, anche recenti, in cui la tempestiva presenza e intervento di un’unità navale, e non solo di un elicottero o di un drone, può risultare decisiva: casi di “vigilanza pesca” in cui nostri pescherecci sono sequestrati in acque internazionali, protezione delle nostre unità mercantili e piattaforme energetiche da atti di terrorismo, prevenzione e contrasto di traffici illeciti e contrabbando anche oltre le nostre acque territoriali (ricordo il diritto di inseguimento), contrasto all’immigrazione illegale e operazioni di salvataggio in mare, contrasto all’inquinamento per sversamenti prodotto da navi in prossimità delle nostre coste e molte altre circostanze in cui anche il solo possesso di unità molto veloci funge da deterrenza. Questo riguarda sia la Marina che i Corpi armati dello Stato, oltre che le rispettive Forze speciali per interventi in alto mare.

Lei ritiene che vi sia piena consapevolezza di questi rischi?

La crescita di questi fenomeni nell’ultimo decennio ha messo in allarme tutte le Marine e trova frequente riscontro nei media: in articoli recentemente apparsi su grandi testate nazionali sono emersi indicatori chiari: 1) la sicurezza marittima presenta numerose sfide e può essere messa in crisi da avversari con strumenti a basso costo; 2) sono molti gli scenari di una minaccia diretta portata da terroristi e gruppi armati, su cui si innestano anche contrabbando e pirateria; 3), molti paesi stanno ampliando i loro arsenaliper condurre missioni in ambiente marino.

Lo stesso Capo di SM della Marina, in un suo recente intervento, ha evidenziato che “… potenze situate nell’anticamera del Mediterraneo […] sono protagoniste di una corsa al riarmo in netta controtendenza rispetto agli occidentali…” e che “Assieme alla capacità portaerei e a quella anfibia, oggi il deep strike fa parte di un trittico che definisce i tre requisiti principali di una nazione a vocazione davvero marittima”. Il “deep strike” nell’ambito della sicurezza marittima è proprio centrato sul profilo operativo di mezzi molto performanti cui accennerò in seguito.

Nella gamma delle unità militari di superficie, come avviene la scelta della loro configurazione e dei sistemi da imbarcare?

Nel modo tradizionale di procedere, dagli scenari geopolitici nasce la definizione della minaccia e da questa la definizione dei requisiti tecnico-operativi per contrastarla nei tre ambienti di terra, acqua e aria, cui oggi si sono aggiunti quelli di spazio e cyber. Da queste, gli Stati Maggiori studiano le configurazioni più adatte ai mezzi di rispettiva competenza per il contrasto della minaccia. Ci si è tuttavia resi conto che parlare solo di “scenari” poteva essere sufficiente e attinente al mondo bipolare della Guerra fredda, in cui la mutevolezza dei fattori e della provenienza della minaccia erano relativamente lenti e governati in vari modi dalle due maggiori potenze. Oggi è più appropriato parlare di “rischio” e della possibilità/capacità di contrastarlo in ciascuno degli ambiti anzidetti: questo modo di ragionare è meno statico ma più laborioso, in un contesto divenuto mutevole, relativamente poco prevedibile e multipolare. Ritengo conseguentemente, per inciso, che la gestione del rischio, il risk management eil crisis management, debbano entrare nella cultura formativa di tutti gli ufficiali.

L’Ammiraglio di Squadra (r) Cristiano Bettini, già Sottocapo di Stato Maggiore della Difesa e Presidente dell’Organismo di valutazione della performance (OIV) del Ministero della Difesa.
L’Ammiraglio di Squadra (r) Cristiano Bettini, già Sottocapo di Stato Maggiore della Difesa e Presidente dell’Organismo di valutazione della performance (OIV) del Ministero della Difesa.
Nel variegato panorama attuale delle unità navali di medio e minore tonnellaggio, ovvero fregate, pattugliatori e corvette, si vede una convergenza verso progetti piuttosto similari nella fascia dalle 500 alle 1.000 tonnellate e uno stacco successivo verso dislocamenti più propri delle vecchie fregate, fino a 2.500-3.500 t., come desumibile dai programmi per una corvetta europea EPC (European Patrol Corvette) da 3.500 t. o in quelli francesi della classe Gowind, fino a 2.500 t. Le nuove fregate sembra che si siano ormai spostate verso le 5-7.000 t.

Qui la risposta non può che essere più articolata. Da tempo il tonnellaggio delle unità dislocanti tende a crescere in molte Marine occidentali, anche per svolgere funzioni che non sempre richiedono grandi dimensioni, né requisiti di protratta permanenza in mare decisamente superiori al passato. Senza dubbio, ciò conferisce maggiore comfort all’equipaggio e una maggiore modularità trasformativa, ma la motivazione addotta risiede nella possibilità di gravare l’unità di strumentazione idonea a svolgere più funzioni, denominando l’unità con i termini generici ma suasivi di “polivalenti” o “multifunzionali”, che hanno anche un notevole appeal politico, nella convinzione che ad essi corrisponda in ogni caso una certa economicità sia funzionale, che di acquisizione e di gestione. Tuttavia è da tener presente che una nave, quando esce in mare per ragioni operative (non addestrative, nelle quali si cerca di testare la maggior parte dei sistemi imbarcati), si muove per svolgere missioni specifiche che attingono normalmente solo ad alcune delle capacità imbarcate; le altre restano inutilizzate (sia uomini che strumentazione), ma ad esse corrisponde comunque un peso e un maggior consumo di carburante per l’unità e cicli manutentivi per le apparecchiature , anche quando non impiegate. Quindi realizzare classi di navi tutte parimenti multifunzione, aumentandone necessariamente il tonnellaggio, può risultare antieconomico (per l’utente, non per il costruttore).

La domanda è: dove si trova lo spartiacque della convenienza? Certo, come detto, ormai non nel nome del tipo di nave, vista la incerta corrispondenza, ma verosimilmente il rapporto tra dislocamento e macro-funzioni può essere per questo indicativo. Le stesse fregate, tradizionalmente le unità più flessibili della flotta, vengono ancora suddivise, in base alla loro tipicità prevalente, in antiaeree o antisom, mantenendo un denominatore comune di sistemi per l’autodifesa; così i cacciatorpediniere sono prevalentemente designati alla lotta di superficie nelle due componenti antinave ed antiaerea, che richiedono sistemi e armamenti voluminosi e pesanti e che giustificano il tonnellaggio. Poi, tutta una serie di unità di medio tonnellaggio, non di prima linea, svolgono compiti specifici in cui il risultato di dislocamento e finalità d’uso è più facile da confrontare e valutare, ed è considerabile ben bilanciato fin dall’inizio: cacciamine, navi idrografiche, navi rifornitrici, navi recupero sommergibili, ecc.; specializzazione da non confondere con l’eterogenesi dei fini applicabile ad altre classi di unità specializzate, come ad esempio le unità di sbarco anfibio, utilizzabili efficacemente, grazie alla loro configurazione, per compiti di Protezione Civile in caso di grandi calamità.

 Scelte rivolte ad una o due unità polifunzionali sono state prese da piccole Marine anche in ambito NATO, come la Danimarca e il Belgio, prevedendo di operare per missioni complesse solo in ambito di coalizione. Le Marine maggiori, tra cui va ancora annoverata la nostra, investono in fasce di capacità, con una certa sovrapposizione, dovendo operare in un’area di responsabilità geopolitica regionale ampia, il cosiddetto “Mediterraneo allargato”. Tuttavia, è necessario considerare che nei grandi bacini chiusi tra choke points, e in cui si affacciano molti paesi rivieraschi in frequente stato di tensione tra loro (Mediterraneo, Mar Baltico, Golfo Persico) dove sono necessari un presidio e un intervento tempestivi, mezzi navali medio-piccoli, non destinati a impieghi expeditionary ma ben armati e di gestione economica, risultano convenienti. Scelte in tal senso sono quelle della Marina russa, con unità entro le 1.000 tonnellate. Per le Marine, se vogliamo fare un paragone, queste navi corrispondono a quel che sono i velivoli intercettori per le Aeronautiche. Peraltro, tale scelta è oggi facilitata dalla miniaturizzazione di molti sistemi IT e di elettronica dei sistemi di scoperta, localizzazione e controllo.

Quali concetti e trasformazioni presiedono ai cambiamenti in questo settore?

Proprio la mutevolezza delle nuove minacce ha generato risposte tecniche e industriali che hanno inciso, almeno in Europa, su tutte le infrastrutture e sistemi dell’opera morta, ma molto meno sulle piattaforme navali, in particolare nell’opera viva, rispetto ai tradizionali scafi cosiddetti a V profondo. Posso citare il caso delle fregate tedesche MEKO, le prime a muoversi a fine anni ’80 su concetti di modularità funzionale, che hanno fatto scuola, accelerando l’allestimento o la configurazione ed eventuale riconfigurazione in tempi contenuti. Non sempre, tuttavia, i risultati sono stati all’altezza delle aspettative, influenzando peraltro, nella ricerca di volumi adeguati, anche il rapporto lunghezza/larghezza, non certo benefica per le carene.

Più applicabile a unità medie e minori è il concetto di mission bay, aree funzionali compatte ove allocare capacità specifiche, come vedremo nel primo dei due progetti, ed anche quello danese dello standard flex (STANFLEX), utilizzando container standardizzati.

Inoltre, considerando che solo il 30-35% del costo di un’unità è devoluto a progetto e costruzione, per tutte le nuove costruzioni viene pianificato l’onere di tutto il ciclo di vita. Le stesse prove in vasca navale vengono affiancate da altre verifiche nel digital twin, cioè sulla replica virtuale del progetto.

Naturalmente, il miglior abbinamento tra i diversi sistemi d’arma offensivi/difensivi imbarcati, con gli apparati di scoperta / localizzazione / comunicazione / informazione / elaborazione dati /navigazione ecc., richiede uno studio preliminare che motiva e condiziona la costituzione di tutta la piattaforma, potremmo dire concettualmente in modo non molto dissimile da quanto avveniva nel XVIII e XIX secolo, in cui i vascelli erano modellati per consentire di operare con e attorno alle loro decine di cannoni. La maggiore attenzione ai primi rispetto ai secondi, nell’architettura complessiva, consente oggi di riconsiderare diverse configurazioni, soprattutto in una fascia dove delle sperimentazioni consentono interventi tecnicamente sostenibili.

L’uniformità progettuale degli scafi a V profondo, basati su estesissima esperienza militare applicata anche a costruzioni delle dimensioni di cui trattiamo, può essere affiancata efficacemente da scafi con miglior rendimento idrodinamico, utilizzando alcuni criteri di “alleggerimento” della spinta idrostatica.

Lei da tempo segue studi che elaborano progetti innovativi in campo navale, pur non strettamente militare, attingendo anche ad architetture diverse dalla V profonda citata, applicabili a diversi contesti: può accennarci a questi?

Le vie convenienti per conseguire prestazioni elevate devono mettere insieme, come detto, diverse forme di architetture, propulsione, e di sostentamento che non sia soltanto quello idrostatico ma anche idrodinamico e aerodinamico, non tutti tipicamente presenti in campo militare. Studi di tal genere, che richiedono esperienze specifiche, sono passati negli anni da gruppi di progetto denominati Naval Advanced Technologye Hydrodynamics, oggi presenti in Ship Project Engineering & Contracting.

In questa sede posso citare due recenti applicazioni per il settore militare basate sull’integrazione di tali principi.

Il primo è il progetto denominato Ultra Fast Offshore Vessel, un pattugliatore di 630 t. per 60 m. di lunghezza fuori tutto, di elevatissima velocità, oltre 70 nodi, largamente superiore a qualsiasi altra unità similare, non solo europea. Tale velocità è ottenibile solo con un sostentamento idrodinamico che consente all’unità di passare, tra 55-60 nodi, in assetto di planata, riducendo così la superficie bagnata e la resistenza all’avanzamento. Lo scafo, già sperimentato nella vasca navale di Göteborg (SW), ha mantenuto tutte le aspettative sia di marinità che di stabilità associate a tutte le velocità; anzi, con eliche di superficie (l’attuale propulsione è a idrogetto) aveva superato gli 80 nodi. Si tenga presente che altre unità in linea o in fase progettuale di pari dislocamento non superano i 38-40 nodi: si tratta, dunque, di risultati notevolissimi.

L’unità, con elevata capacità di carico e molto versatile, è stata progettata in quattro versioni base. Due di esse – una più armata, con missili S/S a poppa oppure un ponte di volo per elicotteri medi (si vedano l’immagine di apertura dell’articolo e quella qui sotto), e una con armamento più leggero per privilegiare altre funzioni – sono per la Marina Militare.

Un’altra immagine computerizzata, questa di poppa, del progetto Ultra Fast Offshore Vessel.

Ammiraglio Bettini

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Un’altra immagine computerizzata, questa di poppa, del progetto Ultra Fast Offshore Vessel.

Una o due unità operative come queste, di base nei bacini più “caldi” attorno alla Penisola, costituirebbero a mio avviso un ottimo deterrente e strumento di intervento.

Un’altra versione è adatta alle Forze speciali, e un’altra ancora è più idonea, per configurazione, alla Guardia di Finanza. Entrambe eventualmente provviste di sistemazioni logistiche/sanitarie, laboratori, eventuali mezzi ruotati imbarcabili da poppa, spazi poppieri sopra e sotto il ponte di volo costituibili a mission bay, o in alternativa utilizzando container in standard TEU, secondo il sopracitato concetto stanflex.

Lay-out del ponte di corridoio interno; la freccia indica la zona centro-poppiera allestita per una mission bay per una zona sanitaria e mezzi ruotati di varie dimensioni ed attrezzature.

Le unità sono realizzabili secondo i protocolli normativi RINa Mil.

Un altro tipo di progetto che utilizza, per ridurre la resistenza, sia l’elevato rapporto lunghezza/larghezza di due scafi completamente immersi, che la conseguente riduzione delle superfici al galleggiamento, è un catamarano di tipo SWATH (Small Waterplane Area Twin Hull), di 53 m., capace di raggiungere circa 55 nodi di velocità garantendo un’estrema stabilità della piattaforma, poco sensibile al mare mosso e con possibilità di variare l’immersione: per questo gli SWATH sono normalmente definiti “The best solution for small ships in big waves”. Gli scafi immersi sono come scafi di sommergibili a quota periscopica, dove la turbolenza è minima, mentre la superficie al livello del galleggiamento, dove vi è turbolenza d’onda, è ridotta al minimo. La distanza tra scafi immersi deve essere ampia per evitare interferenza reciproca d’onde. Anche in caso di mare agitato, con altezze delle onde che superano la quantità di spazio libero sotto la struttura trasversale, le navi SWATH sono progettate per avere un periodo di sollevamento (sussulto) sufficientemente ridotto per mantenere stabilità anche a basse velocità, riducendo brusche oscillazioni.

Immagine di una nave SWATH a catamarano utilizzata come stabile piattaforma elicotteristica (a sinistra) e di uno scafo in bacino con un’ala di controllo dell’assetto visibile su uno degli scafi immersi, indicata dalla freccia.


Ammiraglio Bettini

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Immagine di una nave SWATH a catamarano utilizzata come stabile piattaforma elicotteristica (a sinistra) e di uno scafo in bacino con un’ala di controllo dell’assetto visibile su uno degli scafi immersi, indicata dalla freccia.

Queste unità stanno trovando largo impiego, in diverse funzioni e dimensioni, nella US Navy, dove la prima classe di quattro unità di 70 m. circa risale al 1991.

Proprio la miglior convergenza di prestazioni, ottenibile in scafi SWATH nella media dimensione, per ottenere una stabilità notevole con mare mosso, li rende idonei come soluzione anche militare quando la stabilità di piattaforma unita ad una buona velocità siano requisiti primari. Sulla parte immersa degli scafi sono in corso ulteriori sperimentazioni per aumentare la spinta con sistemi sia idrodinamici, sia aerodinamici. Questi scafi, peraltro, si prestano molto bene alla propulsione ibrida diesel-elettrica.

Sezione trasversale esemplificativa di un progetto nazionale di SWATH da 53 m, idoneo a realizzazioni militari, capace di velocità oltre i 50 nodi, mantenendo la caratteristica stabilità anche con mare mosso. Nella parte indicata dalla freccia sono possibili ulteriori sviluppi tecnologici, in fase di esame.

Ammiraglio


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Sezione trasversale esemplificativa di un progetto nazionale di SWATH da 53 m, idoneo a realizzazioni militari, capace di velocità oltre i 50 nodi, mantenendo la caratteristica stabilità anche con mare mosso. Nella parte indicata dalla freccia sono possibili ulteriori sviluppi tecnologici, in fase di esame.

Altre soluzioni, sempre in una fascia attorno a 50-60 m., sono in corso di studio sia per ulteriori alleggerimenti tramite superfici aerodinamiche, che per sistemi di propulsione ibrida e green, in connessione con studi universitari in tale direzione.

(*) Già Sottocapo di Stato Maggiore della Difesa e Presidente dell’Organismo di valutazione della performance (OIV) del Ministero della Difesa

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