Etiopia: Abiy ordina l’offensiva finale sul Tigrai

Nov 26 2020
a cura di Benedetta Pellegrino
Scaduto l’ultimatum di 72 ore concesso alle milizie del TPLF, il capo del governo di Addis Abeba ha ordinato alle truppe federali di iniziare la fase conclusiva della campagna militare per riprendere il controllo della regione ribelle e del suo capoluogo Macallè. La preoccupazione dell’ONU per le conseguenze sulla popolazione civile di un conflitto che nelle prime settimane ha causato lo sfollamento di 42.000 persone in Sudan.
Una mappa dell'Etiopia. (Immagine da maps-ethiopia.com)
Una mappa dell’Etiopia. (Immagine da maps-ethiopia.com)

“Il periodo di 72 ore concesso alla cricca criminale del TPLF per arrendersi pacificamente è terminato e la nostra campagna di imposizione della legge è arrivata alla sua fase finale.” Con queste parole postate sul suo profilo Twitter, poche ore fa il presidente dell’Etiopia, Ahmed Abiy, ha dato il via alla fase finale della campagna militare iniziata tre settimane fa dalle forze federali per riprendere il controllo della regione ribelle del Tigrai. “L’ultima porta pacifica che era rimasta aperta per la cricca del TPLF è stata fermamente chiusa a causa del disprezzo di quest’ultimo per il popolo etiope. Tuttavia, migliaia di membri della milizia e delle forze speciali del Tigrai che hanno capito la natura distruttiva del TPLF hanno utilizzato le porte della pace e si sono arresi senza combattere.”

“La Ethiopian National Defence Force”, prosegue il messaggio presidenziale, “è stata ora incaricata di concludere la terza e ultima fase delle nostre operazioni per ripristinare lo stato di diritto. In questa fase sarà prestata grande attenzione alla protezione dei civili innocenti. Sarà fatto tutto il possibile per garantire che la città di Macallè, che è stata costruita grazie al duro lavoro della nostra gente, non sia gravemente danneggiata. Verranno prese tutte le precauzioni per garantire che i siti del patrimonio culturale, i luoghi di culto, le strutture pubbliche, le istituzioni di sviluppo e le aree residenziali non siano obiettivi.”

Gli ultimi, inutili appelli della comunità internazionale per scongiurare la guerra

Sono dunque caduti nel vuoto gli appelli della comunità internazionale per trovare una soluzione pacifica alla crisi fra il governo federale di Addis Abeba e la potente regione ribelle del Tigrai, rappresentata dal movimento TPLF (Fronte di liberazione popolare del Tigrai) e dalle sue milizie armate, forti di centinaia di migliaia di combattenti. Nella giornata di ieri, sotto la spinta dei membri europei (che sollevavano la questione da tre settimane), si era riunito il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ma l’incontro si era concluso senza l’approvazione di una dichiarazione ufficiale in quanto l’Unione Africana avrebbe richiesto più tempo per proseguire i propri sforzi diplomatici. Il portavoce delle Nazioni Unite, Stephane Dujarric, aveva diffuso una nota in cui si diceva: “Stiamo seguendo con grande allarme le segnalazioni della possibile azione militare intorno a Macallè. Il Segretario generale [Antonio Guterres] è molto preoccupato per l’impatto che essa avrà sulla popolazione civile, sulla nostra capacità di fornire aiuti umanitari in un’area dove è quasi impossibile farlo.” Dujarric aveva inoltre ribadito l’appello di Guterres affinché fosse garantita la protezione dei civili in vista dell’annunciato assalto alla capitale del Tigrai da parte dell’esercito federale.

Sempre nella giornata di ieri, il primo ministro etiope aveva invitato la comunità internazionale ad astenersi da “non graditi e illegittimi atti d’ingerenza” negli affari interni del suo paese, “fino a quando il governo dell’Etiopia non presenterà le sue richieste di assistenza”, mentre il leader del TPLF, Debretsion Gebremichael, aveva rilasciato una dichiarazione in cui negava che le sue truppe fossero sull’orlo della sconfitta, ma ribadiva che il popolo del Tigrai era “pronto a morire per difendere il proprio diritto ad amministrare la regione”.

Il primo ministro etiope Abiy Ahmed. (Foto da Twitter)
Il primo ministro etiope Abiy Ahmed. (Foto da Twitter)
Le origini dell’attuale crisi

Dal 2018, ovvero da quando il TPLF ha perso il controllo del governo federale e Abiy Ahmed è diventato primo ministro, la frequenza dei conflitti etnici in tutti gli stati regionali etiopi, fatta eccezione del Tigrai, è aumentata esponenzialmente. Numerose sono state le vittime, di cui molte figure importanti di etnia oromo, come il cantante e attivista per i diritti civili Hachalu Hundessa, la cui uccisione, avvenuta nel giugno scorso, ha scatenato rivolte di piazza che hanno provocato la morte di oltre 150 civili. Molte violenze sembrano essere state orchestrate da chi ha perso il potere, con l’obiettivo di rendere instabile e ingovernabile il paese.

Il 21 agosto scorso, a causa del dilagare della pandemia di CoVid-19, Abiy ha rinviato le elezioni generali a data da destinarsi. Befekadu Hailu, del think tank etiope Center for the Advancement of Rights and Democracy (CARD), aveva allora già parlato di un possibile aumento delle violenze nei mesi successivi, descrivendole con queste parole: “Si tratta più di amarezza etnica che di pratiche non democratiche. Soprattutto i nazionalisti in Oromia e Tigrai, e alcuni in Amhara, stanno mobilitando i loro sostenitori”. Infatti, il TPLF ha accusato il primo ministro di prorogare incostituzionalmente il mandato del suo governo, e così, in segno di sfida, ha istituito la propria commissione elettorale e convocato elezioni regionali separate nel mese di settembre. Per tutta risposta, la House of Federation, ovvero la camera alta del parlamento etiope, ha dichiarato all’unanimità “incostituzionali” le elezioni per il parlamento regionale e, dunque, “nulli” i loro risultati. Da allora le tensioni sono inevitabilmente aumentate.

Gli scontri di novembre

Si è giunti così all’ultima fase dell’escalation. Il 3 novembre, Abiy ha annunciato l’inizio di un’offensiva militare contro il TPLF in conseguenza di un attacco compiuto dalle unità tigrine contro il Comando militare settentrionale dell’Ethiopian National Defence Force (ENDF) a Macallè. Il TPLF ha “oltrepassato la linea rossa”, ha dichiarato Abiy, e da quel momento sono stati sospesi i servizi internet, elettrico e delle telecomunicazioni nel Tigrai. Il 6 novembre, le forze federali hanno lanciato un contrattacco aereo in seguito alla richiesta di mediazione respinta dal TPLF. Nel frattempo, le Nazioni Unite avevano chiesto una risoluzione pacifica del conflitto. “Data la forza delle forze di sicurezza del Tigrai, il conflitto potrebbe protrarsi”, ha dichiarato l’International Crisis Group, un’organizzazione senza scopo di lucro. “Il Tigrai ha una grande forza paramilitare e una milizia locale ben addestrata, che si pensa comprenda 250.000 uomini in tutto”.

Il 7 novembre, i capi dell’Esercito e dell’Intelligence etiopi sono stati sostituiti e il Parlamento di Addis Abeba ha approvato la formazione di un’amministrazione ad interim per il Tigrai, destituendone “l’assemblea e l’esecutivo illegali” insediatisi a seguito delle elezioni locali tenutesi a settembre. Nei giorni successivi si è assistito a un’escalation di attacchi: il 9 novembre, a Mai Kandra, città vicino al confine con il Sudan, sono stati uccisi 600 civili, un massacro la cui responsabilità è stata attribuita da Amnesty International e dalla Commissione etiopica per i diritti umani alle forze tigrine. È iniziata in questo modo anche la fuga di molti civili in Sudan, già 42.000 alla data del 25 novembre.

Il 13 novembre, due razzi sono stati lanciati contro gli aeroporti di Gondar e Bahir Dar, situati nella limitrofa regione di Amhara, provocando pochi danni materiali; ventiquattr’ore dopo, gli obiettivi sono stati il ministero dell’Informazione, l’aeroporto e un’area residenziale della capitale eritrea Asmara, anche in questo caso senza particolari risultati. Sia l’Amhara sia l’Eritrea sono accusati dai ribelli etiopi di supportare militarmente l’offensiva di Addis Abeba nel Tigrai, e per questo considerati obiettivi legittimi.

Militari dell’Ethiopian National Defence Force (ENDF). (Foto da Anadolu Agency)
Militari dell’Ethiopian National Defence Force (ENDF). (Foto da Anadolu Agency)
Come si è arrivati all’ultimatum di resa

Il 23 novembre le truppe federali hanno circondato Macallè, mantenendosi a circa 50 chilometri di distanza dalla città. Il TPLF ha accusato il governo di Addis Abeba di “invadere” il Tigrai per soggiogarne la popolazione.

L’inizio della fine è a portata di mano”: con queste parole il primo ministro etiope ha lanciato un ultimatum di 72 ore al TPLF, invitando il fronte tigrino a deporre le armi entro il 25 novembre, in caso contrario la regione avrebbe subito l’attacco al suo capoluogo Macallè. “La sicurezza e il benessere complessivi della popolazione del Tigrai è di fondamentale importanza per il governo federale”, ha twittato Abiy. “Faremo tutto il necessario per garantire la stabilità nella regione del Tigrai e che i nostri cittadini siano liberi.

Debretsion Gebremichael, leader del TPLF, ha negato che Macallè fosse stata circondata e ha riferito a Reuters che la minaccia dell’ultimatum era soltanto una copertura delle “amare sconfitte del governo federale su tre fronti”. A causa dell’interruzione delle comunicazioni e dell’accesso a Internet, è risultato effettivamente difficile verificare le notizie provenienti dalle parti in causa. Un aspetto che aggiunge complessità a questo conflitto, le cui cause possono rintracciarsi non solo nelle differenze ideologiche tra Abiy e il TPLF e nell’esclusione del partito dominante del Tigrai dal governo federale, ma soprattutto nel controllo dell’economia dell’Etiopia, delle sue risorse naturali e dei fondi che il paese riceve ogni anno da donatori e prestatori internazionali. L’accesso a quelle ricchezze è riservato al governo federale, che il TPLF ha controllato per quasi tre decenni prima che Abiy salisse al potere nel 2018.

Un excursus storico

La lotta per il potere tra le forze governative etiopi e i leader del Tigrai ha radici profonde. Durante la rivoluzione del 1974, l’imperatore Hailé Selassié venne rovesciato e una giunta militare, nota con il nome “Derg”, si impossessò del potere. La guerra civile che ne scaturì ebbe effetti devastanti sulla popolazione civile, sulla quale si rovesciò una violenta campagna di repressione politica, il famigerato “Terrore rosso” dell’Etiopia.

Nel settembre 1974, per sensibilizzare la popolazione contro il regime feudale di Selassié, un gruppo di studenti universitari provenienti dalla regione del Tigrai fondò, ad Addis Abeba, un movimento politico clandestino chiamato Organizzazione Nazionale Tigrina (Tigrayan National Organization – TNO). Quando il Derg assunse il controllo del paese, il TNO sostenne che la lotta armata fosse l’unico modo per contrastare il nuovo regime e ristabilire le libertà democratiche. Pertanto, il TNO si trasformò in TPLF (Tigray People’s Liberation Front), che sarebbe in seguito diventato il più potente movimento di liberazione armata attivo in Etiopia.

Nel 1991, il TPLF e i suoi partner di coalizione sconfissero il governo militare, per poi dominare per oltre vent’anni l’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF), ovvero l’alleanza al potere nel paese: grazie al loro governo, le condizioni del paese migliorarono, con una diminuzione della mortalità infantile e della carestia su larga scala, ma allo stesso tempo iniziarono a manifestarsi sentimenti di esclusione e disillusione da parte dei giovani, scaturiti da quello che appariva loro come il dominio dei politici tigrini, ai quali rimproveravano  di gestire politica, esercito ed economia a proprio vantaggio. L’Etiopia restò così uno stato monopartitico, lontano da un concetto evoluto di democrazia, al punto che questo periodo viene chiamato da Abiy come i “27 anni di oscurità”.

Sull’onda delle proteste antigovernative, nel 2018 il primo ministro Hailé Mariàm Desalegn si dimise. Al suo posto venne eletto Abiy Ahmed Ali, primo leader Oromo, il più grande gruppo etnico del paese ma per anni marginalizzato dall’EPRDF. Fedele alle promesse fatte durante il suo discorso di insediamento, Abiy ha attuato molte riforme, liberando prigionieri politici, sbloccando centinaia di media, privatizzando aziende statali e, soprattutto, risolvendo il lungo conflitto in corso dal 1998 fra Etiopia ed Eritrea, uno sforzo che gli varrà nel 2019 il premio Nobel per la pace.
Le riforme di Abiy hanno ribaltato le dinamiche di potere, e i leader tigrini si sono lamentati di essere utilizzati come capri espiatori per i problemi del paese. Questo sentimento di insoddisfazione ha portato nel 2019 al rifiuto, da parte del TPLF, di unirsi al primo ministro per formare il Partito della Prosperità nazionale (Prosperity Party) dopo aver sciolto l’EPRDF. Una mossa che gli ha garantito approvazione popolare, mentre i suoi critici hanno commentato che “smantellare non equivale a costruire”.

Militari delle forze tigrine. (Foto da eritreahub.org)

Etiopia

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Militari delle forze tigrine. (Foto da eritreahub.org)

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