Il fragile cessate-il-fuoco rappresenta un successo della diplomazia di Mosca, interessata a mantenere lo status quo nella regione, mentre Ankara sembra soffiare sul fuoco per cogliere l’occasione di affermare definitivamente la propria influenza sull’Azerbaigian, paese strategico per i suoi idrocarburi e lo sbocco sul Mar Caspio.
A partire dallo scorso 27 settembre, il conflitto tra Armenia e Azerbaigian nella regione contesa del Nagorno-Karabakh ha vissuto una fase di escalation dopo il periodo di relativa tranquillità seguito agli scontri verificatisi nel mese di luglio lungo la “linea di contatto”, ovvero l’area militarizzata che separa le forze armate azere e armene dalla fine della guerra del 1991-94, che avevano provocato una ventina di vittime. In questa nuova fase delle ostilità, ai due diretti contendenti si sono aggiunti attori esterni del peso della Turchia (alleata di Baku) e della Russia (che ha basi militari in Armenia ma non può schierarsi per non abbandonare l’Azerbaigian all’influenza turca), conferendo alla crisi una pericolosa dimensione internazionale. Fortunatamente, l’interesse russo al ristabilimento della pace e il conseguente sforzo diplomatico di Mosca hanno portato all’accordo di cessate-il-fuoco entrato in vigore alle ore 12 locali di sabato 10 ottobre, ma per porre fine al conflitto la strada appare ancora in salita, nonostante la volontà espressa da Baku ed Erevan di intavolare trattative di pace sotto l’egida del Gruppo di Minsk dell’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), formato da Francia, Russia e Stati Uniti.
Il riaccendersi delle ostilità il 27 settembre e la successiva escalation
Ricapitoliamo brevemente gli eventi che hanno portato alla tregua del 10 ottobre.
La mattina del 27 settembre, l’Azerbaigian ha lanciato un massiccio attacco con l’artiglieria e l’aviazione lungo la “linea di contatto”, colpendo anche insediamenti civili, inclusa Stepanakert, la capitale dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh (fino al 2017 Repubblica del Nagorno-Karabakh). Secondo Baku, l’offensiva sarebbe stata una risposta a precedenti bombardamenti armeni che avrebbero colpito diversi villaggi e causato la morte di civili: una versione che Erevan ha definito “menzognera”, prima di lanciare un contrattacco nel quale gli azeri hanno perduto circa 800 uomini.
In seguito agli attacchi azeri del 27 settembre, il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha annunciato l’imposizione della legge marziale e la mobilitazione generale del Paese. Una decisione che ha seguito quella del presidente della Repubblica dell’Artsakh, Arayik Harutyunyan, il quale ha dichiarato la legge marziale con mobilitazione di tutti i cittadini di età superiore ai 18 anni.
Il 29 settembre, l’esercito azero ha lanciato un’altra offensiva per liberare la città di Füzuli, capoluogo dell’omonimo distretto e situata nell’Artsakh. Nelle stesse ore, la Difesa armena ha riferito che le sue truppe avevano respinto attacchi nemici in diverse aree della linea di contatto. Inoltre, Baku ha accusato l’Armenia di aver bombardato il distretto di Dashkasan, situato in Azerbaigian, ma anche in questo caso è giunta la smentita di Erevan.
L’intervento turco al fianco di Baku
Nel frattempo, quello tra Armenia e Azerbaigian ha rischiato di trasformarsi in un conflitto su scala regionale a causa delle interferenze esterne di cui abbiamo accennato all’inizio, in primo luogo ad opera della Turchia. Ankara, infatti, per bocca del suo ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, ha subito sposato la causa azera e dato a Baku la propria totale disponibilità a fornirle sostegno militare diretto nel conflitto.
Da parte sua, il premier armeno ha rivolto numerosi appelli alla comunità internazionale affinché impedisse un’escalation della situazione: “Il comportamento aggressivo della Turchia, che si è manifestato in modo molto pericolosa con gli eventi di luglio e prosegue ancora oggi, suscita grave preoccupazione”, ha dichiarato Pashinyan. “Il fatto che Ankara stia mantenendo un comportamento così pericoloso è foriero delle conseguenze più devastanti per il Caucaso meridionale e le regioni adiacenti. La comunità internazionale deve prevenire con sforzi congiunti il pericoloso sviluppo degli eventi e astenersi da ogni tentativo di destabilizzazione della regione.”
Il ministero della Difesa armeno ha anche riferito, il 29 settembre, che un caccia F-16 turco aveva abbattuto un Su-25 dell’Aeronautica di Erevan in territorio armeno, circostanza smentita dagli organi di stampa turchi e azeri. Almeno la presenza di aerei da guerra turchi in territorio azero sarebbe comunque confermata, stando a immagini satellitari del 3 ottobre pubblicate su Twitter da un giornalista del “New York Times”, che mostrerebbero due F-16 e un aereo da trasporto CN-235 dell’Aeronautica turca parcheggiati sulla pista dell’aeroporto internazionale di Ganja.
Oltre al Cremlino, anche gli Stati Uniti hanno chiesto alla Turchia di rimanere fuori dal conflitto per non “aggiungere benzina sul fuoco”, ma le autorità armene hanno accusato Ankara di inviare soldati, miliziani e armi sulla linea del fronte. Il presidente francese Macron, il 2 ottobre, ha chiesto al governo turco di fornire spiegazioni riguardo all’arrivo in Azerbaigian di miliziani “jihadisti” provenienti dalla città siriana di Aleppo (circa 300 combattenti secondo le fonti dell’intelligence francese) e si è appellato agli alleati della NATO affinché contrastassero le iniziative di Erdogan.
Da parte sua, l’Azerbaigian ha denunciato la presenza, fra i miliziani armeni, di combattenti curdi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), che la Turchia considera una formazione terroristica e combatte con spietatezza, oltre che in patria, anche in Siria e Iraq.
Verso il cessate-il-fuoco del 10 ottobre
Sempre il 2 ottobre, l’Armenia si è dichiarata disponibile ad avviare negoziati per un cessate-il-fuoco in Karabakh con la mediazione dei Paesi del Gruppo di Minsk dell’OSCE (co-presieduto da Russia, Stati Uniti e Francia). Ciononostante, il giorno seguente le forze azere hanno bombardato Stepanakert colpendo con missili obiettivi civili, secondo quanto denunciato dal ministero della Difesa armeno. Il suo omologo azero ha invece affermato che sarebbero state le forze di Erevan a lanciare, da postazioni situate a Stepanakert, un attacco missilistico contro le città di Terter e Horadiz (nel distretto di Fizuli), e che anche il secondo maggiore centro del Paese, Ganja, nonché altre aree civili, sarebbero state colpite con razzi e bombardamenti. Il governo armeno ha smentito la notizia, ma il presidente dell’autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh, Arayik Harutyunyan, ha rivelato che sono state le forze ai suoi ordini a distruggere una base militare nemica a Ganja.
Il 4 ottobre, secondo quanto riportato dalle agenzie di stampa armene e del Karabakh, le forze azere avrebbero nuovamente bombardato la città di Stepanakert, almeno per quattro volte.
Il successo della mediazione russa
La sera dello stesso 4 ottobre, il presidente azero Ilham Aliyev ha annunciato che l’Azerbaigian era pronto a cessare le proprie operazioni nel Nagorno-Karabakh se l’Armenia avesse proposto un programma per il ritiro delle sue truppe dalle città della regione contesa: “La nostra condizione per un cessate-il- fuoco”, ha detto Aliyev, “è che l’Armenia proponga un’agenda temporanea per il ritiro delle truppe dai territori azeri occupati nel Nagorno-Karabakh – un ritiro non soltanto promesso a parole, ma da attuarsi nei fatti – specificando quali territori verrebbero liberati e in quali giorni”.
Nel caso non si fosse raggiunto un cessate-il-fuoco, ha aggiunto Aliyev, le operazioni azere sarebbero continuate fino alla liberazione delle terre occupate dagli armeni. Una posizione supportata anche dalla Turchia.
Una prima svolta positiva è arrivata il 9 ottobre, quando il presidente russo Putin ha chiesto “la fine delle ostilità nella zona di conflitto del Nagorno-Karabakh per motivi umanitari, al fine di scambiare i corpi delle vittime e i prigionieri”, invitando i ministri degli Esteri di Azerbaigian e Armenia a Mosca per “tenere consultazioni su questi temi con la mediazione del ministro degli Esteri russo”. Tali consultazioni hanno portato a un cessate-il-fuoco entrato in vigore alle ore 12 locali del giorno 10. Inoltre, Baku ed Erevan hanno dichiarato l’intenzione di avviare negoziati con l’obiettivo “di raggiungere una soluzione pacifica il prima possibile”, confermando il ruolo di mediatore del Gruppo di Minsk. A questo proposito, Ankara ha sottolineato come la tregua non rappresenti una soluzione duratura della crisi. Purtroppo, già nelle ore successive all’entrata in vigore, il ministero della Difesa azero ha denunciato la violazione del cessate-il-fuoco da parte dell’Armenia.
Un excursus storico
Il conflitto nel Nagorno-Karabakh si è riacceso a intermittenza nel corso degli ultimi decenni. La regione, che ospita una popolazione di origine armena, si trova in Azerbaigian, e nel corso dei secoli è stata sotto il controllo di diverse popolazioni; fino al 1920, quando l’Unione Sovietica ne riconobbe il controllo da parte della Repubblica Socialista Sovietica Azera, suscitando tensioni con la vicina Armenia. Queste si acuirono con lo scioglimento dell’URSS, tanto che nel 1991 il Nagorno-Karabakh decise di diventare un’entità statale autonoma, e il 6 gennaio 1992 nacque l’autoproclamata Repubblica di Artsakh, mai riconosciuta dall’ONU (e nemmeno dall’Armenia). Questa fu la miccia che fece esplodere il conflitto del Karabakh, iniziato con il bombardamento azero di Stepanakert, che durò fino al 1994 e provocò circa 30.000 morti, 80.000 feriti e centinaia di migliaia di profughi. l’Azerbaigian perse un sesto del suo territorio, comprendente la regione del Nagorno-Karabakh e altre 7 province, mentre il Nagorno-Karabakh diventò de facto una repubblica indipendente.
Nel 1993 furono votate le risoluzioni dell’ONU numero 822, 853, 874 e 884, le quali stabilivano che il Nagorno-Karabakh era una regione contesa a maggioranza etnica e prevedevano la restituzione all’Azerbaigian di 5 delle 7 province perdute, essendo le restanti 2 quelle che collegano l’Armenia al Karabakh.
Gli scontri si riaccesero nel 2016 (durante gli anni precedenti si era assistito a numerose violazioni del cessate-il-fuoco), in particolare nella notte fra l’1 e il 2 aprile, allorché l’Azerbaigian sferrò una massiccia offensiva contro il Nagorno-Karabakh. I violenti combattimenti durarono quattro giorni e provocarono più di 300 vittime, prima che le diplomazie di Russia e Stati Uniti riuscissero a fermare quella che viene ricordata come “Seconda guerra del Nagorno-Karabakh” o “Guerra dei quattro giorni in Nagorno-Karabakh”.