Occasioni perse e ipocrisia hanno minato l’autorevolezza del nostro Paese a livello internazionale, riducendone drasticamente lo spazio di manovra sullo scacchiere mediterraneo dove si impongono nazioni più “assertive”. Questo e molto altro nelle parole dell’alto ufficiale già a capo del Comando Operativo di Vertice Interforze e della Brigata Folgore, un militare di elevato profilo e con una vasta esperienza in missioni internazionali.
Generale Marco Bertolini, la posizione dell’Italia nello scenario libico appare compromessa dall’ingresso in scena della Turchia. Ritiene che vi siano ancora margini sufficienti affinché Roma possa ristabilire una capacità d’influenza tale da poter tutelare gli interessi nazionali in Libia?
Certamente ci troviamo in una fase molto dinamica, nella quale la Turchia di Erdogan, il principale artefice di quello che fino a poche settimane fa pareva uno sblocco della situazione in Libia grazie ad una mossa a tutto favore di Al Serraj, è presa da una pericolosa escalation in Siria dove l’esercito turco sta fiancheggiando i terroristi di Haiat Tahrir al Sham impegnati a fronteggiare una poderosa offensiva russo-siriana tesa a liberare la provincia di Idlib. Pare quindi improbabile che Ankara possa proseguire a spostare jihadisti dalla Siria a Tripoli, come aveva iniziato a fare qualche settimana fa, e questo potrebbe marginalizzarne temporaneamente il peso in Libia, a tutto vantaggio di un’iniziativa italiana ed europea. Ma, al contrario, potrebbe anche verificarsi che un successo di Ankara in Siria ridia ossigeno alle speranze di una forte sponda oltremediterraneo di Al Serraj, rilanciandone le speranze ai danni di Haftar. Resta il fatto che sarebbe necessaria, per gestire da parte nostra questo momento, una chiarezza di idee da parte del nostro Governo che non pare esserci, in un momento in cui il problema del coronavirus e le frizioni intra ed extragovernative assorbono le poche energie dell’Esecutivo. Diciamo che probabilmente Al Serraj dovrebbe avere ora tutto l’interesse a ridurre la spocchia con la quale aveva rifiutato di perdere tempo con le nostre profferte di interessamento per risolvere la crisi, anche se resta il fatto che non credo che il nostro Governo sia attrezzato culturalmente per capire che quello che i due contendenti cercano è essenzialmente supporto militare, non sterili appelli alla pace e contro le armi che non cavano un ragno dal buco, anche se gonfiano le gote dei nostri professionisti di buoni sentimenti da quattro soldi.
In ogni caso, c’è da dire che la ripartizione delle competenze tra i vari poteri del nostro Stato poco, anzi pochissimo, si presta all’adozione di provvedimenti tempestivi, per sfruttare l’onda del momento e finestre di opportunità che in questa fase storica si aprono e si chiudono nel giro di un batter d’occhio. Per questo, saremo sempre in debito d’ossigeno rispetto ad un regime come quello turco nel quale il Presidente ha spazi di manovra per noi impensabili. E senza dover temere l’iniziativa di qualche giovane PM che entri a gamba tesa nel campo di decisioni politiche in punta di diritto.
L’obiettivo della nuova missione dell’Unione Europea sarà di contrastare l’afflusso di armi in Libia. Tuttavia, questa iniziativa appare tardiva poiché numerose armi e combattenti stranieri sono giunti nel paese negli ultimi mesi. Qual è la sua valutazione in merito?
L’Unione Europea è profondamente permeata dalle ideologie e dall’ipocrisia di tutto l’Occidente, se dimostra di ritenere che il problema sia dovuto alla presenza delle armi. Personalmente, penso che questo sia un mito, cavalcato da chi vuole sempre mettere gli interessi dei produttori di armi alla base delle guerre. Al contrario, i fabbricanti e commercianti di armi sfruttano un bisogno sentito dagli Stati ed anche dalle popolazioni. Le voglio raccontare un aneddoto riferito alla mia esperienza personale. Venticinque anni fa, in Bosnia, fummo incaricati di distruggere un grosso deposito di munizioni trovato presso Sokolac, nell’area della Republika Srbska. La cosa era “borderline”, tenuto conto che i Serbi ritenevano che si trattasse di un deposito consentito dagli accordi di Dayton. Resta il fatto che, come verificammo ripetutamente negli anni successivi, diritto ed esigenze degli Stati (tra cui quelli della Nato presenti con loro contingenti) non sempre vanno d’accordo, e non ci furono discussioni: dovevamo far saltare tutto. In quei giorni venne in visita da noi un sottosegretario del nostro governo molto preparato che volle visitare la cittadina prima dell’operazione, in una fase interlocutoria nella quale si stava ancora discutendo il da farsi. Al ritorno al Comando non poté fare a meno di domandarci, sorpreso, come mai la popolazione di Sokolac era così contraria alla distruzione di quelle armi e munizioni che per lui rappresentavano soltanto una cosa cattiva. Non poteva capire, eppure era una persona molto preparata ed intellettualmente onesta, che per quella gente le armi erano sicurezza, tranquillità; senza le quali si sentivano in balia dei croato-musulmani che avevano combattuto fino a poco tempo prima. Le armi come cosa buona, insomma, sono un piatto veramente difficile da mandare giù. Ma chiederei a questo punto agli Hutu massacrati dai Tutsi nel 1996, in gran parte a colpi di machete, se avrebbero considerato buono o cattivo un rifornimento di armi con le quali difendersi. Non furono riforniti e sappiamo come andò a finire.
Detto questo, se c’è una cosa che non manca in Africa, queste sono le armi. E i due contendenti ne hanno in abbondanza e continueranno ad averne fino a quando i rispettivi sponsor internazionali, Turchia ma anche USA e UK per Al Serraj, e Russia, Francia, Egitto e Arabia Saudita per Haftar, li appoggeranno. E quando non ne avranno più, ci sarà certamente chi gliele fornirà, anche se a prezzi più alti per superare l’embargo internazionale.
Poiché la nuova missione europea sarà principalmente aero-navale, vi è il rischio che sia efficace soprattutto nel bloccare i carichi di armi turche spediti via nave a Tripoli, mentre il Generale Haftar potrebbe continuare a ricevere aiuti militari via terra. Non ritiene che una missione così strutturata possa alterare la “balance of power” tra i due contendenti, aggravando dunque la situazione?
Al Serraj, o meglio le Katibe tripoline e misuratine che – con qualche mal di pancia – lo appoggiano, ha armi a sufficienza, anche perché pesca a piene mani nell’enorme patrimonio bellico creato da Gheddafi per mettersi al sicuro da ingerenze esterne. È servito a poco al raìs, come sappiamo, e le armi sono finite nelle disponibilità dei suoi oppositori. Ciò detto, credo che poche navi turche verranno mai fermate da una operazione aeronavale nella quale sono soprattutto paesi Nato come la Turchia a impiegare le proprie forze. Inoltre, il Mediterraneo è grande e non è un lavoro da poco individuare, fermare, controllare e, se del caso, sequestrare navi inadempienti alle disposizioni internazionali.
In ogni caso, è vero che Haftar ha il vantaggio di poter contare su rifornimenti per via terrestre difficili da intercettare, ma è anche vero che la stessa cosa vale per Al Serraj, anche se in misura minore. Quanto allo sbilanciamento a favore di Haftar di un blocco dei rifornimenti marittimi, lo sbilanciamento c’è già, di fatto, col Generale in controllo di quattro quinti del territorio libico. Non so quanto possa convenire il trascinamento all’infinito di questa “drôle de guerre” nella quale gli unici a perderci sono i Libici. E noi Italiani.
Lo scorso gennaio la Turchia ha avviato prospezioni illegittime nelle acque della ZEE cipriota, sostenendo che quelle acque sono di pertinenza turca in base all’accordo recentemente firmato con il GAN. In quei giorni, navi da guerra turche hanno bloccato e poi costretto ad allontanarsi una nave da prospezione israeliana (Bat Galim) che stava facendo ricerche in zona. Già a febbraio 2018, un’unità della Marina turca fermò la nave Saipem 12000 che operava per conto di Eni nell’off-shore di Cipro.
Visto l’atteggiamento assertivo della Turchia, ritiene che Ankara rinuncerà all’invio di ulteriori armi a Tripoli? Oppure le navi partecipanti alla missione europea si troveranno a dover bloccare e abbordare navi turche? In generale, quali rischi vede per la missione europea?
La Turchia sta alzando di molto la posta nel Mediterraneo per proporsi quale principale interlocutore politico-militare per chiunque si affacci nell’ex Mare Nostrum. Si è imposta in questo ruolo con una spregiudicatezza incredibile, sfruttando ogni occasione per i propri interessi. Per i propri interessi, appunto, non per quelli dell’Alleanza Atlantica di cui è parte o di chissà quale consorteria nella quale si riconosca. La sua mossa dimostra, per chi non lo avesse capito, che il diritto internazionale vale solo per chi ha la forza di farlo applicare, altrimenti resta carta straccia. L’allargamento della sua ZEE, non senza una gentile concessione a quel microgoverno che è il GNA tripolino, potrebbe far sorridere qualche illuso giustizialista nostrano che avesse tempo per prestare attenzione a quello che sta succedendo attorno a noi. Ma si tratta di una cosa seria, che ha anche stimolato una corsa all’emulazione nella quale si è segnalata anche l’Algeria, che ora rivendica una propria ZEE ampliata, ai danni italiani e spagnoli. Certamente non si tratta di acque territoriali, ma in assenza di una presa di posizione forte da parte nostra rischia di diventare affare loro, quasi per usucapione. In ogni caso, è certo che con la sua presa di posizione la Turchia vuole mettere il cappello su giacimenti il merito della cui scoperta andrebbe all’Eni, privata però di un rapporto diretto con il Governo italiano che ci garantirebbe grandi vantaggi come paese. Guai della privatizzazione, complice anche il suicida alzarsi dei toni con l’Egitto da parte della nostra politica, per l’affare Regeni e ora anche per lo studente egiziano Zaki, con il quale molti nostri rappresentanti politici sembrano ansiosi di bruciarci le ultime possibilità di fare i nostri interessi.
Poiché il conflitto libico vede un crescente impiego di aerei e droni, ritiene che sarebbe utile l’implementazione di una “no-fly zone”? Pensa che l’Italia potrebbe farsi promotrice di una richiesta in tal senso all’ONU?
Una no-fly zone è stata implementata per un decennio circa ai danni dell’Iraq, prima della caduta di Saddam. Ma per essere credibile presuppone la disponibilità ad abbattere gli inadempienti, manned o unmanned che siano. E per implementarla occorrerebbero Combat Air Patrols (CAP) costantemente in volo o su scramble in Libia o in Italia meridionale: molto onerose. Una no-fly zone funziona poi solo se chi la deve subire ha la percezione della propria debolezza, come nel caso di Saddam dopo la prima guerra del Golfo. Ma non è questo il caso di Haftar e a maggior ragione dei Turchi, che non si farebbero scrupolo di non rispettarla.
Secondo Lei, quali scelte dovrebbe compiere l’Italia per tutelare efficacemente i propri interessi in Libia?
Domanda impegnativa. Sarebbe più facile dire cosa l’Italia avrebbe dovuto fare, a partire dall’opporsi all’abbattimento di Gheddafi, col quale avevamo firmato un patto di amicizia tre anni prima di accodarci ai bombardamenti anglo-francesi. Se le ricorda, vero, le scene di giubilo di una buona parte del nostro panorama politico per un’azione che mandava all’aria il lavoro di Berlusconi (che era però anche il lavoro dell’Italia in quel momento)? Ma capisco che è al presente e al futuro che lei fa riferimento. Onestamente, non conosco nessuna formula magica che ci consenta di riguadagnare le posizioni che abbiamo perso in questi anni, e non solo con riferimento alla Libia. Certamente dovremmo proporci con una autorevolezza che viene smentita, ad esempio, da provvedimenti come quelli intrapresi dal governo in carica, smanioso di contraddire tutto quello che è stato fatto dal governo precedente per quel che riguarda, ad esempio, il problema migratorio. E che il problema migratorio abbia un impatto diretto sulla questione libica è chiaro: come possono darci retta vedendo quello che stiamo facendo e disfacendo? E la nostra autorevolezza viene anche messa in discussione, anzi alla berlina, dalle iniziative di qualche PM di provincia capace di intervenire nel campo politico definendo cosa è lecito fare o non fare ai nostri governanti per tutelare i nostri interessi nazionali. Se l’immagina se impugnasse la decisione di far intervenire i nostri aerei per far rispettare la no-fly zone di cui parlavamo, con tutti i rischi che un’azione del genere comporta?
Detto questo, dando per scontato un rinsavimento che però è forse ostacolato dal coronavirus galoppante che ottenebra le menti, sarebbe necessario rinunciare a lanciare vuoti appelli ad una pace che i due leader riterrebbero solo una resa, e dare concretezza al nostro apporto, chiunque se ne voglia beneficiare. A poco servono “consiglieri militari” se non siamo in grado di dare armi, o magari neppure un giubbotto antiproiettile per qualche Ministro, per rispetto dell’embargo dell’ONU. La Turchia, che dell’Onu fa parte come noi, dell’embargo se ne frega. E dovremmo smetterla di pensare che basti un ospedale da campo a Misurata, una città che non difetta di ospedali ben organizzati, per ottenere poco più di un po’ di simpatia per la nostra bontà d’animo. Dovremmo essere incisivi nel pretendere che lo snodo di Mellitah e le piattaforme in mare dell’Eni siano protette da militari italiani, magari in cambio di una nostra partecipazione alla difesa di Al Serraj, utilizzando gli stessi per controllare le aree dalle quali parte il traffico degli scafisti tra Tripoli e il confine tunisino. Ma mi rendo conto che si tratta di fantapolitica per chi è abituato a definire i propri interessi come semplice derivata di quelli dell’alleanza, sia essa la Nato, l’Unione Europea o l’Onu stessa. Ovviamente, ciò sarebbe inutile senza un’azione politica seria, che faccia pesare il peso residuo del nostro paese; che però avrebbe un patrimonio di credibilità, per il nostro passato in quella terra, che dovremmo avere il coraggio di far valere.
L’Egitto è uno dei principali sostenitori di Haftar, mentre l’Italia e la Turchia sostengono il GAN; d’altro canto, Roma è allineata con Il Cairo nel condannare l’accordo siglato fra Tripoli e Ankara per la ridefinizione delle rispettive ZEE nel Mediterraneo Orientale. Premesso ciò, quale lettura può dare dei negoziati in corso per la vendita all’Egitto delle ultime due FREMM già costruite per la Marina Militare italiana?
Come accennavo, l’Italia ha fatto di tutto, in passato, per tagliarsi i ponti con Il Cairo, come se non fosse in grado di capire che l’Egitto è un paese imprescindibile per chi voglia contribuire a controllare la conflittualità nel bacino. E senza considerare quanto l’Egitto sta facendo – pagando anche in termini di gravi sacrifici – per controllare i movimenti jihadisti profondamente radicati soprattutto nel Sinai. Abbiamo elevato i toni per l’affare Regeni fino al punto di ritirare l’ambasciatore dal Cairo. Successivamente, ad ambasciatore rientrato al suo posto, è stata la volta di un’inedita rottura dei rapporti tra il nostro Parlamento e il loro che probabilmente ha creato più sconcerto che allarme in quel paese. Ora è il caso dello studente egiziano Zaki, arrestato dalle autorità del suo paese per reati dei quali si sarebbe reso responsabile contro le loro leggi. Trovo più di un filo di razzismo nella presunzione di buona parte del nostro intellettualume di entrare nel merito delle sovranità altrui, quasi che loro non avessero la capacità di elaborare leggi giuste e il diritto di farle applicare.
Grazie a Dio, però, permane un fondo di senso dello Stato in molti dei nostri politici e credo che a questo si debba la progettata vendita delle ultime due FREMM alla Marina egiziana. Certamente, a parte il fatto che l’Italia è schierata per Al Serraj mentre l’Egitto opta per Haftar, cosa che non significa che i due paesi debbano considerarsi nemici, un Egitto più forte militarmente, nonché più capace di frapporsi anche agli allargamenti della Turchia con una presenza in mare più significativa, non dovrebbe essere contrario ai nostri interessi.