Con l’uccisione del generale Soleimani, l’amministrazione Trump punta a far saltare il banco, elevando il livello dello scontro con l’Iran su un piano dove ritiene di essere chiaramente in vantaggio. La reazione iraniana è stata ben bilanciata, ma esiste il rischio di una pericolosa escalation.
L’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, potente comandante della Forza Quds, l’unità delle Guardie della Rivoluzione Islamica (pasdaran) responsabile delle operazioni di guerra non convenzionale e di intelligence militare svolte all’estero, seguita dalla rappresaglia missilistica contro le basi statunitensi in Iraq, ha alzato il livello dello scontro fra Washington e Teheran, facendo temere un’escalation di violenze nel Medio Oriente di cui non è facile prevedere le conseguenze ultime. Nessuno ha la palla di vetro, ma è possibile quantomeno inquadrare i fatti alla luce dell’attuale situazione internazionale, ovvero degli interessi strategici degli attori coinvolti e dei loro reciproci rapporti di forza. A tal fine, può essere utile ripercorrere la cronologia degli ultimi avvenimenti prima di tentarne una lettura.
Gli ultimi eventi
Lo scorso 27 dicembre, 31 razzi sono stati sparati contro la base militare irachena K1, situata nei pressi di Kirkuk, uccidendo un contractor civile statunitense e ferendo sei militari, dei quali quattro statunitensi e due iracheni. In seguito, le forze di sicurezza hanno rinvenuto una piattaforma di lancio per razzi Katiuscia in un veicolo abbandonato nelle vicinanze della struttura militare. Gli Stati Uniti hanno attribuito la responsabilità dell’attacco a Kata’ib Hezbollah, un gruppo paramilitare sciita appartenente alle Forze di Mobilitazione Popolare (coalizione di almeno 60 milizie di vario orientamento religioso, ma in maggioranza sciite e controllate dall’Iran, creata nel 2014 per combattere l’ISIS), che da parte sua ha negato ogni coinvolgimento.
In risposta all’attacco contro la base irachena, due giorni dopo le forze americane hanno condotto strike aerei contro cinque obiettivi del gruppo sciita, in particolare depositi di armi e centri di comando e controllo, di cui tre in Iraq (nel governatorato occidentale di Anbar) e due in Siria (dove Kata’ib Hezbollah è presente per dare sostegno militare all’esercito di Damasco). Secondo l’emittente al-Arabiya, i raid avrebbero ucciso 25 persone, inclusi tre ufficiali iraniani e lo stesso leader di Kata’ib Hezbollah, Abu Ali al-Khazali, ferendone altre 38. Un portavoce del Pentagono ha affermato che l’obiettivo dell’offensiva aerea era impedire al gruppo sciita di attaccare nuovamente le forze di coalizione impegnate nell’Operazione Inherent Resolve (OIR).
La spirale di violenza innescata dal botta e risposta fra le milizie filo-iraniane e Washington è proseguita nei giorni seguenti. Fra il 31 dicembre e il 1° gennaio, centinaia di manifestanti sventolanti bandiere delle Forze di Mobilitazione Popolare hanno preso d’assalto l’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad, provocando danni materiali all’esterno e all’interno della sede diplomatica, dalla quale il personale statunitense era stato precedentemente fatto evacuare. Da parte sua, Washington ha accusato le autorità irachene di non aver fatto abbastanza per proteggere gli interessi americani nel paese in seguito ai raid di due giorni prima, e ha attribuito l’assalto all’ambasciata a “terroristi sostenuti dall’Iran”, come ha detto il segretario di Stato Pompeo. La sera stessa del 31 dicembre, il capo del Pentagono, Mark Esper, ha annunciato l’invio di altri 750 soldati in Iraq che andranno ad aggiungersi ai 5.000 già presenti, come misura precauzionale in risposta alla crescente minaccia per il personale e le strutture statunitensi. Già prima dell’annuncio, elicotteri Apache e un centinaio di marines provenienti dal Kuwait erano stati fatti affluire a Baghdad per controllare la “Green Zone”, il quartiere dove sorgono l’ambasciata USA e molte altre sedi diplomatiche e governative.
Nonostante che a quel punto la tensione fosse già alle stelle, niente lasciava presagire quanto sarebbe accaduto nelle prime ore del 3 gennaio, quando un drone MQ-9 Reaper statunitense ha centrato con quattro missili un piccolo convoglio di due automezzi che stava lasciando l’aeroporto della capitale irachena: a bordo di essi, il generale Qassem Soleimani, comandante della Forza Quds, Abu Mahdi al-Muhandis (“l’Ingegnere”), vice comandante delle Forze di Mobilitazione Popolare e segretario generale di Kata’ib Hezbollah, e altri otto uomini, tutti rimasti uccisi nell’attacco. Il Pentagono ha giustificato l’operazione affermando che Solemaini “stava progettando attacchi contro diplomatici e militari americani in Iraq e in tutta la regione”, mentre l’Iran l’ha bollata come “un atto di guerra” e ha promesso, per bocca dell’ayatollah Ali Khameni, “una dura rappresaglia”.
Appena ventiquattrore dopo, in un nuovo raid aereo compiuto nella zona di Taji, a nord di Baghdad, è stato ucciso anche Shibl al-Zaydi, comandante di Kata’ib al-Imam, un’altra milizia appartenente alle Forze di Mobilitazione Popolare, oltre a suo fratello e a quattro guardie del corpo.
Il 5 gennaio, il Parlamento iracheno ha approvato una risoluzione con cui invita il Governo a “revocare la sua richiesta di assistenza da parte della coalizione internazionale che combatte lo Stato Islamico a causa della fine delle operazioni militari in Iraq e del raggiungimento della vittoria”, e a lavorare per porre fine alla presenza di truppe straniere sul suolo iracheno. Sebbene la risoluzione non sia di per sé vincolante per il Governo, nel corso della seduta lo stesso premier Adel Abdul Mahdi ha dichiarato che la partenza delle truppe straniere rimane “la cosa migliore per l’Iraq in linea di principio e dal punto di vista pratico”, testimoniando l’incrinarsi dei rapporti con gli Stati Uniti. La Casa Bianca ha risposto all’ipotesi di “espulsione” minacciando pesanti sanzioni contro l’Iraq e la domanda di rimborso del denaro investito nella costruzione di basi militari nel paese.
Il 6 gennaio, le Guardie della Rivoluzione Islamica hanno dichiarato di avere una lista di potenziali obiettivi comprendente 35 basi americane nel Medio Oriente. Donald Trump ha risposto che gli Stati Uniti sono pronti a colpire 52 siti importanti per l’Iran e la sua cultura, prima che Pompeo correggesse il tiro assicurando che Washington agirebbe comunque nel rispetto delle convenzioni internazionali.
La prima rappresaglia da parte di Teheran si è concretizzata a partire dall’1:20 dell’8 gennaio, quando le Guardie della Rivoluzione Islamica hanno avviato l’operazione “Soleimani martire” lanciando missili balistici Ghiam e Fateh, montati su piattaforme mobili, contro due basi militari statunitensi in Iraq: quella di Ayn al-Asad (nell’Ovest del paese), che è stata oggetto dell’attacco più massiccio, e quella di Erbil (nel Nord). Incerto il bilancio dell’operazione: le fonti iraniane hanno parlato di almeno 80 morti e danni ingenti alle strutture colpite, mentre il giorno seguente Trump ha annunciato che nessun americano è rimasto ferito. Illesi gli oltre 600 soldati italiani rischierati a Erbil per l’Operazione Prima Parthica, che sono rimasti al sicuro in un’apposita area di sicurezza.
Il quadro generale
L’attuale situazione è il frutto di una strategia di pressione esercitata da entrambi i contendenti e dai loro partner e proxy e che riguarda un teatro molto più vasto che si estende dall’Afghanistan alla Siria, passando per lo Yemen e il Libano.
La parabola dell’ISIS, fra i cui scopi vi era di riportare il paese in mano alla minoranza sunnita, ha consentito all’Iran di intervenire in Iraq con il ruolo del salvatore, occupando il vuoto di potere lasciato dagli Stati Uniti con il prematuro ritiro effettuato dall’amministrazione Obama nel 2011. Proprio quel ritiro, tra l’altro, offrì all’ISIS lo spazio per affermarsi in Iraq.
L’uscita unilaterale degli Stati Uniti dal trattato del 2015 (Joint Comprehensive Plan of Action) sul nucleare iraniano, deciso da Trump nel maggio 2018, non ha fatto che aumentare la tensione e, soprattutto, ha eliminato il principale strumento di contenimento dell’Iran per via negoziale in mano all’Occidente. D’altro canto gli effetti delle sanzioni si sono fatti sentire pesantemente in Iran, dove per mesi si sono registrate ondate di proteste popolari contro il governo alimentate dal carovita e dall’incremento del prezzo della benzina. Proteste alle quali si sommano quelle dei giovani iracheni che da oltre sei mesi manifestano contro la disoccupazione, il sistema politico settario (muhasasa) e l’influenza iraniana. Nonostante la sanguinosa repressione voluta dal Governo, che ha portato alla morte di oltre 400 persone negli scontri con le forze di sicurezza, tali manifestazioni hanno costretto il primo ministro (khomeinista) Adil Abdul Mahdi a dimettersi, il 29 novembre, sebbene egli sia ancora in carica in attesa che il Parlamento nomini un successore.
La posizione iraniana in Iraq, dunque, è sottoposta a un’azione di erosione in parte alimentata dagli Stati Uniti che sfruttano la propria influenza sulle minoranze sunnite e curde, così come l’Iran cerca appoggio nella maggioranza sciita. Certo, sarebbe tutto molto più facile per Teheran se non vi fosse una presenza militare statunitense in Iraq. Infatti, i recenti attacchi alle basi americane nel paese condotti dalle milizie sciite controllate dall’Iran rientrano probabilmente in una strategia volta a convincere della precarietà e dell’inutilità della permanenza delle truppe statunitensi in Iraq quella parte della popolazione locale che, invece, vede nei militari americani una tutela contro l’influenza iraniana (non è un caso se in molti hanno manifestato contro la decisione del Parlamento di Baghdad di chiedere il ritiro delle forze occidentali). Contestualmente, tramite una moderata pressione militare, Teheran chiedeva a Washington di prendere atto di aver perso influenza su un paese a maggioranza sciita ormai inevitabilmente attratto nella sfera d’influenza iraniana.
I rischi di un’escalation
Con l’uccisione di Soleimani, l’amministrazione Trump punta a far saltare il banco, elevando il livello dello scontro su un piano dove ritiene di essere chiaramente in vantaggio. Anziché reagire colpendo le milizie sciite filo-iraniane autrici degli attacchi alle basi americane, si è deciso di colpire direttamente l’Iran uccidendo in modo plateale uno dei suoi più noti e importanti rappresentanti. Un’azione che ha costretto Teheran a una reazione altrettanto diretta, militare, necessaria per salvare l’immagine del regime in primis nei confronti del proprio popolo che ha salutato Soleimani come un santo martire, riversando in strada folle oceaniche al passare del feretro. Fortunatamente, tale reazione è stata attentamente ponderata e si è concretizzata in un attacco missilistico molto plateale ma concepito in modo tale da ridurre al minimo il rischio di vittime. Lo stesso governo iraniano, infatti, avrebbe inviato una nota al primo ministro iracheno Mhadi avvisandolo dell’imminente attacco con circa un’ora e mezza di anticipo, consentendogli di fare allertare le truppe della Coalizione le quali, all’arrivo dei missili, si sono fatte trovare in sicurezza all’interno degli appositi rifugi.
Lo scopo di questa reazione è evidentemente di creare l’opportunità di interrompere l’escalation, consentendo a entrambi i contendenti di salvare la faccia e di presentarsi alle rispettive opinioni pubbliche come i vincitori di questa “battaglia”. Le immagini della pioggia di missili che si abbatte sulle basi americane ha permesso alla propaganda iraniana di presentare l’attacco come un duro colpo per gli Stati Uniti, spingendosi persino ad annunciare la morte di molte decine di militari americani. Dall’altro lato, l’assenza di perdite umane nonostante la vastità dell’attacco, ha permesso a Washington di celebrare la superiorità militare degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran, lasciando intendere che l’attacco è stato inefficace grazie ai sistemi di allerta precoce dispiegati sul territorio dal Pentagono.
Al di là delle roboanti minacce espresse sia da Teheran, sia da Washinton riguardo alle potenziali rappresaglie in caso di ulteriori azioni dell’avversario, entrambi i governi sanno di aver solo da un conflitto diretto. Pertanto, il principale teatro dello scontro fra Iran e Stati Uniti rimarrà molto probabilmente l’Iraq, con Teheran impegnata a spingere il governo locale a cacciare le truppe statunitensi e Washington, al contrario, a incrementare la propria presenza e a spingere, anche alimentando le proteste di piazza, per la formazione di un nuovo governo iracheno più vicino agli Stati Uniti.
Il rischio di un’escalation, tuttavia, non può essere escluso poiché i due contendenti potrebbero male interpretare le intenzioni e il livello di determinazione dell’altro, mentre altri attori già impegnati in guerre per procura con l’Iran, come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, ma anche Israele, potrebbero soffiare sul fuoco per spingere Washington in un conflitto che ridimensionerebbe drasticamente le velleità del loro avversario. Tuttavia, è bene tenere presente che un tale conflitto sarebbe devastante, comporterebbe una gravissima crisi energetica (l’Iran ha la capacità militare di chiudere lo stretto di Hormuz per molti mesi) e comunque difficilmente porterebbe a un cambio di regime, poiché neanche gli Stati Uniti potrebbero permettersi realisticamente un’invasione dell’Iran.