Haftar prepara la “battaglia decisiva” per la conquista di Tripoli, mentre il Governo di Accordo Nazionale, vista l’inerzia dell’Italia, cerca l’aiuto della Turchia che è pronta a inviare truppe. Roma deve immediatamente riprendere l’iniziativa dimostrando di essere determinata a fare ciò che è necessario per difendere il GAN e i propri strategici interessi nazionali.
L’Esercito Nazionale Libico (LNA) del generale Khalifa Haftar, l’uomo forte del governo non riconosciuto di Tobruk, è fermo da mesi alle porte meridionali di Tripoli, bloccato dalle forze fedeli al Governo di Accordo Nazionale (GAN) guidato da Fayez al-Serraj e sostenuto dalle Nazioni Unite (nonché da Turchia, Qatar e Italia), ma si prepara a sferrare l’attacco finale sulla capitale grazie al crescente supporto dei suoi alleati internazionali (Arabia Saudita, EAU, Egitto, Russia e Francia) che gli garantiscono un afflusso continuo di denaro e materiali bellici, senza contare gli “scarponi sul terreno” rappresentati da truppe regolari e mercenarie. A violare l’embargo sulla fornitura di armi alla Libia sancito dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU è anche, sul fronte opposto, la Turchia, alleata del governo di Tripoli con il quale Ankara ha firmato, il 27 novembre, un accordo che la impegnerebbe a inviare truppe per difendere la capitale libica nel caso ricevesse un’esplicita richiesta in tal senso da parte del GAN.
Gli effetti di un’eventuale caduta di Tripoli
Anche se l’esito di un’eventuale battaglia finale per Tripoli non è scontato, l’ago della bilancia sembra pendere sempre più dalla parte di Haftar, soprattutto, come ha sottolineato l’inviato dell’ONU Ghassan Salamé, dopo che la Russia è pesantemente scesa in campo al fianco del generale di Tobruk con armamenti e mercenari, una mossa che ha spostato gli equilibri militari a favore degli assedianti. In ogni caso, ci apprestiamo a vivere settimane decisive per il futuro di Tripoli e della Libia. Il primo effetto di un eventuale sfondamento delle truppe di Haftar sarebbe un elevato numero di vittime civili e la partenza di migliaia di migranti verso le coste europee; il secondo, quello di mettere il leader dell’Esercito Nazionale Libico in una chiara posizione di forza alla vigilia della conferenza sulla Libia che la Germania si è offerta di ospitare a Berlino e che Salamé spera di organizzare per la metà di gennaio, sempre che l’evolversi della situazione la renda ancora possibile. Sul medio e lungo periodo, il terzo effetto della caduta di Tripoli sarebbe la forse irrimediabile compromissione degli interessi italiani nel paese. Interessi messi a repentaglio, non solo dallo spregiudicato appoggio fornito ad Haftar dai suoi alleati internazionali (fra i quali Russia e Francia, due membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che si adoperano per sovvertire un governo sostenuto dalle Nazioni Unite), ma anche dal profilo troppo debole e rinunciatario assunto dal governo italiano proprio mentre la crisi libica entrava nella sua fase decisiva.
Del fatto che l’Italia non sia più il paese di riferimento per il dossier Libia si è avuta una dimostrazione plastica ai primi di dicembre quando, a margine del summit NATO di Londra, Francia, Germania, Regno Unito e Turchia si sono incontrate per parlare della Libia senza invitare il premier italiano Conte che, da parte sua, ha svolto un bilaterale con il presidente americano Trump durante il quale gli avrebbe chiesto l’appoggio di Washington al governo libico riconosciuto dall’ONU.
L’inerzia di Roma ha spinto il GAN a cercare un alleato nella Turchia
Roma continua a mantenere una posizione sostanzialmente attendista e a proporsi come mediatore tra le parti, posizione molto difficile da ottenere perché l’Italia ha sempre sostenuto (insieme all’ONU e all’Unione Europea) il Governo di Accordo Nazionale, e non può essere accettata da Haftar come un attore neutrale. Del resto neutrale non può esserlo, sia perché gli interessi nazionali italiani in Libia risiedono principalmente in Tripolitania e in Fezzan, dove sono situati gli impianti dell’ENI che producono circa 302.000 barili di petrolio al giorno (dato medio 2018), sia perché Haftar è sostenuto da potenze che perseguono interessi opposti a quelli italiani. Non dimentichiamoci che la Francia mirava alle concessioni petrolifere dell’ENI quando si è fatta grande promotorice dell’abbattimento con la forza militare del regime di Gheddafi, e oggi vede in Haftar una seconda opportunità per raggiungere questo obiettivo. Inoltre, la Russia ha ottenuto dal comandante dell’LNA la promessa di poter insediare una base militare in Libia, con la quale potrebbe espandere grandemente la propria influenza nel Mediterraneo centrale e orientale, a discapito sopratutto di quella italiana.
Il supporto concreto fornito da Roma al GAN è irrisorio, e i circa 300 militari italiani schierati a Misurata con un ospedale da campo non bastano a dimostrare una determinazione che di fatto non c’è. L’attuale governo italiano, così come i precedenti, continua a ribadire che “non esiste una soluzione militare”, parole che in Libia vengono probabilmente interpretate come una rinuncia a priori dell’Italia ad attuare una qualsiasi forma di intervento militare. Ciò non ha fatto altro che aumentare la fiducia dell’aggressore Haftar, convinto di poter entrare a Tripoli con le proprie milizie senza che Roma muova un dito, e ha certamente spinto al-Serraj a guardare ad altri potenziali protettori, primo fra tutti la Turchia, ed è disposto a farlo a discapito degli interessi italiani. Questo è dimostrato dal fatto che il sopracitato accordo di cooperazione militare tra il GAN e il governo turco è stato accompagnato da un altro accordo sulla giurisdizione marittima che concede alla Turchia la possibilità di arrogarsi il diritto di condurre prospezioni ed estrarre gas e petrolio in una enorme zona economica esclusiva (tra la costa libica di Derna e Tobruk e la costa turca di Bodrum e Marmara) definita ignorando i diritti della Grecia derivanti da Creta e dalle isole del Dodecaneso e dell’Egitto. Tale accordo mette a repentaglio anche le prospezioni off-shore condotte dall’ENI nelle acque di Cipro (già contrastate dalla Turchia anche con l’invio, nel febbraio 2018, di una nave militare per costringere la nave Saipem 12000, che operava per conto dell’ENI, a interrompere le attività) e consentirebbe ad Ankara di impedire la costruzione dei gasdotti necessari a trasferire in Europa gli idrocarburi estratti dai nuovi giacimenti del Mediterraneo orientale.
L’Italia deve dimostrare di essere determinata a proteggere Tripoli
L’eventuale dispiegamento di truppe turche in Libia sancirebbe la definitiva perdita dell’influenza dell’Italia sulla Libia e comporterebbe una drastica riduzione della capacità di Roma di influire sulle dinamiche del Mediterraneo. L’avvio di una nuova missione diplomatica, annunciata il 17 dicembre dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio, avrà senso solo se l’inviato speciale del governo italiano avrà la possibilità di fare la voce grossa. È necessario che Roma prenda chiaramente posizione al fianco del Governo di Accordo Nazionale offrendo anche un concreto e determinante supporto militare italiano, magari sottoscrivendo un accordo simile a quello stipulato tra Tripoli e Ankara. Certamente i libici preferiscono collaborare con gli italiani, piuttosto che doversi rivolgere alla sempre più assertiva Turchia per chiedere un aiuto che certamente si rivelerà molto oneroso per la Libia. Cercare di coinvolgere maggiormente l’Unione Europea va bene, ma lo si deve fare per cercare di rafforzare un’iniziativa che deve essere italiana, non per tentare di scaricare su Bruxelles la responsabilità di tutelare interessi che sono preminentemente italiani.
Inviare un paio di navi a mostrar bandiera nelle acque territoriali libiche di fronte a Tripoli, ovviamente previo accordo con il GAN, sarebbe un modo efficace di mandare un segnale ad Haftar, ma anche alla Turchia. In un conflitto dove con l’invio di 200 mercenari e qualche decina di blindati leggeri si possono cambiare gli equilibri di forza, se l’Italia avesse dimostrato fin da subito di essere determinata a impegnarsi anche militarmente per difendere il GAN e i propri interessi nazionali, l’offensiva di Haftar, forse, non avrebbe mai avuto luogo e la diplomazia avrebbe avuto molte più possibilità di portare la pace nel paese.